Forza violenza dittatura nella lotta di classe
( «Prometeo», N° 2 e 4 del 1946, N° 5
e 8 del 1947, N° 9 e 10 del 1948 )
Sommario:
·
I. Violenza
effetuale e virtuale
·
III. Regime borghese
come dominazione
·
IV. Lotta proletaria e
violenza
·
V.
Degenerazione russa e dittatura
·
Postilla
I. Violenza effettuale e virtuale
Nella storia degli aggregati sociali si riconosce l'impiego in forma
manifesta della forza materiale e della violenza quando tra individui e
individui, tra gruppi e gruppi si constatano urti e scontri che in mille forme si
risolvono con la materiale lesione e distruzione degli individui fisici.
Quando tale aspetto degli sviluppi sociali viene in superficie, esso dà
luogo alle più varie manifestazioni di esecrazione o di esaltazione che offrono
la più banale sostanza alle successive multiformi mistiche che riempiono ed
ingombrano il pensiero delle collettività.
È pacifico, tra le più opposte valutazioni, che la violenza tra uomo e uomo
sia non solo un dato importantissimo dell'energetica sociale, ma un fattore
integrante, se non sempre decisivo, di tutte le mutazioni delle forme storiche.
Per non cadere nella retorica e nella metafisica, aggirandosi tra le tante
confessioni e filosofie che oscillano fra gli apriorismi del culto della forza,
del superuomo, del superpopolo, e quelli della rassegnazione, della
non-resistenza e del pacifismo, occorre risalire alle basi di quel rapporto
materiale che costituisce la violenza fisica, e riconoscerne il gioco
fondamentale, in tutte le forme di organizzazione sociale, anche quando essa
agisce allo stato latente, di pressione, di minaccia, di preparazione armata,
determinando amplissimi effetti storici anche prima, anche al di là, anche sine
effusione sanguinis.
• • •
L'aprirsi dell'epoca moderna, che socialmente è caratterizzata dal gigantesco
sviluppo della tecnica produttiva e dell'economia capitalistica, si accompagnò
ad una fondamentale conquista della conoscenza scientifica del mondo fisico che
risale ai nomi di Galileo e di Newton.
Fu chiaro che due campi di fenomeni, assolutamente separati ed anzi
meta-fisicamente opposti nella fisica aristotelica e scolastica, in realtà si
identificavano ed andavano indagati e rappresentati con lo stesso schema
teoretico: il campo della meccanica terrestre e quello della meccanica celeste.
Si comprese cioè, per la prima volta, che la forza per la quale un corpo
poggiato al suolo preme su di esso, o sulla nostra mano che lo sorregge, non
solo è la medesima che provoca il moto del corpo quando è lasciato libero di
cadere, ma è anche la medesima che lega tra loro i movimenti degli astri nello
spazio, il loro aggirarsi su orbite apparentemente immutabili ed il loro
possibile precipitare gli uni contro gli altri.
Si trattava non di una identità puramente qualitativa e filosofica, ma di
una identità scientifica e pratica, poiché misurazioni della stessa natura
possono condurre a dimensionare il volano di una macchina e a determinare, ad
esempio, il peso e la velocità della luna.
Le grandi conquiste della conoscenza - come potrà dimostrare uno studio
sulla gnoseologia condotto col metodo marxistico - non consistono nel fissare
con scoperte rivelatrici nuovi veri eterni ed irrevocabili, in quanto resta
sempre la via aperta a più ampi sviluppi e a più ricche rappresentazioni
scientifiche e matematiche dei fenomeni di un dato campo, ma consistono
essenzialmente nell'avere spezzato senza rimedio i termini di antichi errori
tra cui la forza oscurante della tradizione che impediva alla nostra conoscenza
di rappresentarsi i rapporti reali delle cose.
Ed infatti anche in questo solo campo della meccanica la scienza ha fatto e
farà scoperte che trascendono i limiti delle enunciazioni e delle formule di
Galileo e di Newton, ma resta il fatto storico della demolizione dell'ostacolo
costituito dalla tesi aristotelica secondo cui una sfera ideale concentrica
alla terra separava due mondi incompatibili tra loro: il nostro, terreno, della
corruzione e della grama vita mortale, l'altro celeste, della incorruttibilità
e della immutabilità gelida e splendente, concezione bene utilizzata nelle
costruzioni etiche e mistiche del cristianesimo e bene adatta a riflettersi
socialmente nei rapporti di un mondo umano fondato sui privilegi delle
aristocrazie.
L'identificazione del quadro dei fatti meccanici della nostra sfera di
esperienza immediata con quello dei fatti cosmici permise di pari passo di
stabilire l'identità sostanziale dell'energia posseduta da un corpo, tanto
allorché il movimento di esso rispetto a noi e all'immediato ambiente ne fa una
empirica evidenza, come quando il corpo stesso apparentemente trovasi in
riposo.
I due concetti di energia potenziale o di posizione e di energia cinetica o
di movimento, riferiti ai corpi materiali, subiranno e subiscono
interpretazioni sempre più complesse fino a rendere a loro volta trasmutabili,
per scambi incessanti il cui raggio di azione si estende all'intero cosmo, le
quantità di materia e di energia che apparivano invariabili nelle formule dei
testi di fisica classica, le quali sono tuttora sufficienti a calcolare e
attuare strutture e macchine a scala umana e con gioco di forme di energia non
intra-atomica.
Ma resta un passo storicamente decisivo nella formazione della conoscenza
scientifica l'aver assimilato, nella loro azione, le riserve potenziali e le
manifestazioni cinetiche di energia.
Il concetto scientifico è divenuto ormai familiare ad ogni uomo che viva
nel moderno ambiente. L'acqua contenuta in un serbatoio posto in alto sta ferma
ed appare priva di moto e di vita. Apriamo le comunicazioni dei condotti con
una turbina posta a valle e questa si pone in moto e ci somministra forza
motrice. Conoscevamo l'entità di questa forza anche prima di aprire le
saracinesche, in quanto essa dipende dalla massa dell'acqua e dalla sua
altezza: energia quindi di posizione.
Quando l'acqua fluisce e si muove, l'energia medesima si manifesta come
energia di movimento: cinetica.
Così pure anche un bambino sa oggi che fra i due fili del circuito
elettrico, fermi e freddi, non avviene alcuno scambio finché non li tocchiamo;
avvicinando un conduttore abbiamo lo sprigionamento di scintille, calore, luce,
violenti effetti sui muscoli e i nervi se il conduttore è il nostro corpo.
I due fili inoffensivi erano ad un certo potenziale; guai a far diventare
cinetica quell'energia. Oggi tutto questo lo sa anche l'analfabeta, ma la
faccenda avrebbe enormemente confuso i sette savi della Grecia e i dottori
della chiesa.
• • •
Passando dal campo dei fenomeni meccanici a quello della vita degli
organismi, troviamo, tra le molto più ricche manifestazioni e trasformazioni
della biofisica e del biochimismo, per cui l'animale nasce, si alimenta,
cresce, si muove, si riproduce, anche l'impiego della forza muscolare nella
lotta sia contro l'ambiente fisico che contro altri esseri animati della stessa
specie e di specie diverse.
In questi contatti materiali e in questi urti brutali le parti e i tessuti
dell'animale si ledono, si lacerano, e nei casi di più grave ingiuria l'animale
muore.
Si considera comunemente che il fattore della violenza faccia la sua apparizione
allorché la lesione organica sorge dall'impiego della forza muscolare di un
animale sull'altro. Non vediamo violenza, nel comune linguaggio, quando la
frana o l'uragano uccidono gli animali, ma solo quando il classico lupo divora
l'agnello o si azzuffa con l'altro lupo che ne brama una parte.
Piano piano l'accezione comune di questi fatti così generali scivola negli
inganni delle etiche e delle mistiche. Si odia il lupo, si piange
sull'agnellino. Più oltre si giungerà a legittimare pacificamente che si
ammazzi e si prepari lo stesso agnello come pasto degli uomini, ma si griderà
con orrore contro i cannibali; si condannerà l'assassino, mentre si esalterà il
combattente; tutti casi - sia pure in una gamma infinita di toni fecondissima
per letterarie variazioni - di tagli e strappi nella carne vivente, tra i quali
potremmo inscrivere, per consultare i nostri giudici di azioni armati delle
varie etiche, l'intervento del bisturi chirurgico sul bubbone cancrenoso.
L'inadeguatezza delle prime rappresentazioni umane aveva processato gli
stessi fenomeni della natura meccanica ed aveva applicato ad essi, per
infantile antropomorfismo, i criteri morali.
La terra andava in giù e l'acqua al mare, l'aria e il fuoco in su, perché
ogni elemento cerca il proprio simile e la propria sede e sfugge il proprio
contrario, essendo amore ed odio i motori primi delle cose.
Se l'acqua o il mercurio non discendevano dal tubo capovolto era perché la
natura aveva orrore del vuoto. Quando Torricelli realizzò il vuoto barometrico
si poté determinare il peso dell'aria, che è anch'essa un grave, e tende in giù
con tale violenza che, se non ne fossimo tutti circondati e penetrati, ci
stritolerebbe al suolo. Ama quindi evidentemente il suo contrario ed andrebbe
condannata per infrazione adultera ai suoi doveri.
Più o meno, in tutti i campi, volontarismo ed eticismo conducono l'uomo a
credere nelle stesse corbellerie.
Tornando all'animale in lotta violenta con le avversità o per la
soddisfazione dei suoi bisogni a mezzo della forza dei suoi muscoli, senza far
suonare il disco borghese darwinistico della lotta per la vita, selezione
naturale ed altri abituali ritornelli, vogliamo porre in rilievo che anche qui
lo stesso movente ed effetto dell'impiego della forza può presentarsi come potenziale
o virtuale da un lato, come cinetico ed attuale dall'altro.
Non solo l'animale che ha provato i pericoli del fuoco, del gelo,
dell'inondazione apprenderà a fuggire prima di affrontarne il cimento quando
avvertirà segni premonitori, ma la stessa violenza tra due esseri animati potrà
molte volte avere effetto senza essere fisicamente consumata.
Il cane selvatico non contenderà al leone il capriolo ucciso, ben sapendo
che seguirebbe la sorte della vittima. Molte volte la preda soccombe per il
terrore prima del morso del carnivoro, talvolta basta lo sguardo di quello a
immobilizzarla e toglierle la possibilità non della lotta ma della stessa fuga.
In tutti questi casi il prevalere della forza ha effetto potenziale senza
bisogno di esplicarsi materialmente.
Se il nostro indagatore etico dovesse sentenziare non crediamo che
assolverebbe il carnivoro per il solo fatto di una libera elezione della sua
preda ad essere divorata.
• • •
Nelle aggregazioni primitive degli uomini si arricchisce progressivamente l'intreccio
dei rapporti tra individuo e individuo. La più grande varietà dei bisogni e dei
mezzi per soddisfarli, la possibilità di comunicazioni tra un essere e l'altro
per il differenziarsi del linguaggio danno luogo a una sfera di relazioni e di
influenze che erano nel mondo animale appena in abbozzo.
Anche prima che si possa parlare di una vera produzione di oggetti di uso
suscettibili di essere adoperati per placare le necessità e i bisogni della
vita, si determina una divisione di funzioni e di attitudini a compierle tra i
componenti dei primi gruppi, che si adibiscono alla raccolta dei vegetali
spontanei, alla pesca, alla caccia, alle prime rudimentali attività nel
preparare e conservare i ricoveri ed allestire i cibi.
Comincia ad apparire la società organizzata e sorge il principio di ordine
e di autorità.
Non è più soltanto con la forza muscolare che gli individui più attrezzati
fisicamente ed anche per energia nervosa piegano gli altri a dati limiti nel
fare impiego del loro tempo e della loro fatica e nel fruire dei beni utili
acquisiti. Cominciano ad essere dettate regole cui la comunità si adatta, che
vengono fatte rispettare senza bisogno di impiegare ogni volta una coazione
fisica, ma con la sola minaccia che il trasgressore verrebbe fieramente punito
e, nei casi estremi, soppresso.
L'individuo che, sospinto dalla primigenia animalità, volesse sottrarsi a
tali imposizioni deve o ingaggiare la lotta corpo a corpo col capo e
probabilmente con gli altri sudditi cui questi comanderebbe di sostenerlo nella
sanzione, o fuggire dalla
collettività, ma in tal caso si troverebbe costretto a soddisfare le sue
esigenze materiali meno copiosamente, e attraverso rischi assai maggiori, di
quanto può fare per i vantaggi che offre l'attività collettiva organizzata sia
pure in modo primordiale.
L'animale uomo comincia a descrivere il suo ciclo non certo uniforme e
continuo né privo di crisi e di ritorni, ma nel senso generale inarrestabile,
dal primo stato di libertà individuale illimitata, di autonomia totale del singolo,
alla soggezione sempre più estesa ad una rete sempre più fitta di vincoli che
prendono il carattere e il nome di ordine, di autorità, di diritto.
Il senso generale dell'evoluzione è quello di rendere statisticamente meno
frequenti i casi in cui la violenza tra uomo e uomo viene consumata nella forma
cinetica, con la lotta, la sanzione corporale, l'esecuzione capitale, ma nello
stesso tempo di rendere più frequenti in raddoppiata ragione i casi in cui la
disposizione autoritaria viene eseguita senza resistenza poiché l'oggetto di
essa sa, per esperienza, che non gli conviene sottrarvisi.
La facile schematizzazione ed idealizzazione di questo processo conduce ad
una astratta elaborazione col giuoco di queste due sole entità: il singolo e
l'associazione, ipotizzando arbitrariamente che tutti i rapporti di ciascun
singolo all'organizzazione si equivalgono, prospettiva illusoria del «contratto
sociale». Si teorizza cioè un cammino delle collettività umane, guidato da un
compiacente iddio regista del dramma a lieto fine, oppure da un meno
comprensibile affiato redentore collocato chi sa come nella testa di ciascun
uomo ed immanente al suo modo di ideare, di sentire e di comportarsi, che
sfocia in un arcadico equilibrio per cui un ordine egualitario permette a tutti
di godere i ricchi benefizi dell'alto rendimento dell'opera associata, mentre
le decisioni di ciascun singolo sono libere e liberamente volute.
L'importanza invece del fattore della forza e il peso del suo gioco sia in quanto
si manifesti palese nelle guerre dei popoli e delle classi, sia in quanto resti
applicato allo stato potenziale per il funzionamento dell'ingranaggio
dell'autorità, del diritto, dell'ordine costituito, del potere armato, viene
messa scientificamente in rilievo dal materialismo dialettico col farne
risalire le causali e l'estensione di impiego ai rapporti in cui sono messi i
singoli dalla tendenza e possibilità di soddisfare i loro bisogni.
Un'analisi delle disposizioni anche preistoriche con le quali i gruppi
associati si procurano i mezzi di vita, e delle prime rudimentali risorse,
armi, strumenti di cui si arricchisce l'arto dell'animale uomo per agire sui
corpi esterni, conduce a definire svariatissime relazioni e posizioni
intermedie tra il singolo e la totalità aggregata, che frazionano questa in
gruppi diversi per attribuzioni, funzioni e soddisfazioni; e questa indagine
fornisce la chiave del problema della forza.
L'elemento essenziale di quella che si è soliti chiamare civiltà è questo:
l'individuo più forte consuma più di quello debole; e fin qui si resta nel
campo dei rapporti della vita animale e, se vogliamo, la cosiddetta natura,
pensata dalle teorie borghesi come una bravissima regista, ha ben provveduto
perché più muscoli comportano più stomaco e più cibi; ma inoltre il più forte
dispone le cose in modo che gli sforzi lavorativi siano forniti in maggiore
misura dal più debole e in misura minore da lui. Se il più debole si rifiuta
tanto a vedere mangiare il pasto più lauto che a veder compiere l'opera più
lieve, e magari nessuna opera, la superiorità muscolare lo piega e lo costringe
alla terza menomazione di venire percosso.
L'elemento discriminante della civiltà sociale, dicevamo, è dunque quello
che tale semplice rapporto si attua infinite volte in tutti gli atti della vita
in comune senza bisogno che la forza costrittiva venga impiegata in modo
attuale e cinetico.
Alla base dello schieramento degli uomini nei gruppi posti in così
dissimile situazione di vita materiale sta inizialmente una ripartizione di
compiti che, nella grandissima complessità delle manifestazioni, assicura al
soggetto, alla famiglia, al gruppo, alla classe privilegiata, un riconoscimento
che, dalla constatazione reale della iniziale utilità, conduce al formarsi di
una attitudine di soggezione degli elementi e gruppi sacrificati. Questa
attitudine si tramanda nel tempo e si inserisce nella tradizione in quanto le
forme sociali hanno una loro inerzia analoga a quella del mondo fisico
per cui, fino a superiori cause perturbatrici, tendono a descrivere le stesse
orbite, a perpetuare le medesime relazioni.
Quando - per continuare in quella che ogni lettore anche non adusato alla
indagine marxista comprende essere una esposizione a rilievi schematici per
fine di brevità - per la prima volta il minus habens non solo non ha
costretto il suo sfruttatore ad impiegare la forza per eseguire gli ordini, ma
ha imparato a ripetere che ribellarsi sarebbe stato una grande infamia perché
avrebbe compromesso le regole e gli ordini da cui dipendeva la salvezza di
tutti, allora - giù il cappello! - è nato il Diritto.
Se il primo re è stato un bravo cacciatore, un gran guerriero, che aveva
più volte esposta la vita e versato il sangue in difesa della tribù, se il
primo stregone sacerdote è stato un intelligente indagatore di segreti della
natura utili alla cura delle malattie ed al benessere, se il primo padrone di
schiavi o di salariati è stato un capace organizzatore di sforzi produttivi in
modo che si traesse maggior rendimento dalla coltivazione della terra o dalle
prime tecnologie, l'iniziale constatazione di questo compito utile ha permesso
di costruire le impalcature dell'autorità e del potere, permettendo a quelli
che stavano al vertice di quelle nuove e più redditizie forme di vita associata,
di prelevare - per proprio comodo - una larga parte dell'incremento di prodotto
realizzato.
L'uomo ha assoggettato a un tale rapporto in primo luogo l'animale di altra
specie. Il bue selvatico solo con dure lotte e con sacrificio dei più audaci
domatori fu sottoposto le prime volte al giogo. In seguito non occorre più
violenza in atto perché la bestia pieghi la sua cervice. Il suo poderoso sforzo
decuplica la quantità di cereale a disposizione del padrone, ed il bue per
nutrirsi e conservare la sua efficienza muscolare riceve una frazione della
biada.
L'evoluto homo sapiens non tarda ad applicare questo rapporto al
proprio simile col sorgere della schiavitù. L'avversario in una contesa
personale o collettiva, il prigioniero di guerra pesto e ferito viene ridotto
con ulteriori violenze a lavorare con gli stessi patti sindacali del bue; egli
all'inizio si rivolta, raramente può sopraffare l'oppressore e sfuggirgli; a
lungo andare il fatto normale è che lo schiavo, anche sopravanzando di muscoli
il padrone quanto il bue, subisce la sua soggezione e funziona come la bestia,
offrendo soltanto una gamma molto più ricca di servigi.
Passano i secoli e questo sistema costruisce la propria ideologia, viene
teorizzato, il sacerdote lo giustifica in nome degli dei, il giudice vieta con
le sue sanzioni che possa essere violato. Vi è una differenza e una superiorità
dell'uomo della classe oppressa sul bue: è quella che non si potrà mai
insegnare al bue a recitare, del tutto spontaneamente, una dottrinetta secondo
la quale la trazione dell'aratro è per lui un vantaggio grandissimo, una sana e
civile gioia, un adempimento della volontà di Dio e della santità delle leggi,
né mai avverrà che il bue ne dia atto nel deporre una scheda.
Tutto il nostro discorso su questa elementare materia vuole condurre a
questo risultato: mettere sul conto del fondamentale fattore della forza tutta
la somma degli effetti che da esso derivano, non solo quando la forza è
impiegata allo stato attuale, con violenza sulle persone fisiche, ma anche e
soprattutto quando esso fattore forza agisce allo stato potenziale e virtuale
senza i rumori della lotta e lo spargimento del sangue.
Travalicando i millenni ed evitando di ripetere l'esame delle successive
forme storiche di rapporti produttivi, di privilegi di classe, di potere
politico, si deve giungere ad applicare tale risultato e criterio alla presente
società capitalistica.
È così possibile battere la tremenda contemporanea mobilitazione
dell'inganno, l'universale regia che costruisce la soggezione ideologica delle
masse ai sinistri dettami delle minoranze predominanti, il cui trucco
fondamentale è quello dell'atrocismo, ossia, della messa in evidenza
(corroborata inoltre da potenti falsificazioni di fatto) di tutti gli episodi
di sopraffazione materiale in cui, per effetto dei rapporti di forza, la
violenza sociale si è resa palese e si è consumata colpendo, sparando,
uccidendo e - cosa che dovrebbe apparire la più infame, se la regia non avesse
avuto tremendi successi nell'incretinimento del mondo - atomizzando. Sarà così
possibile riportare al loro giusto, preponderante valore qualitativo e
quantitativo, i casi innumerevoli in cui la sopraffazione, sempre risolvendosi
in miseria, sofferenza, distruzione a volumi imponenti di vite umane, si consuma
senza resistenza, senza urti, e - come dicevamo all'inizio - sine effusione
sanguinis. anche nei luoghi e nei tempi in cui sembra dominare la pace
sociale e la tranquillità, vantata dai ruffiani professionali della propaganda
scritta e parlata come l'attuazione piena della civiltà, dell'ordine, della
libertà.
Il confronto tra il peso dei due fattori - violenza in atto e violenza in
potenza - mostrerà che, malgrado tutte le ipocrisie e gli scandalismi, il
secondo è quello predominante, e solamente su di una tale base si può costruire
una dottrina e una lotta capaci di spezzare i limiti dell'attuale mondo di
sfruttamento e di oppressione.
II. Rivoluzione borghese
Poiché sarebbe troppo lungo applicare a
tutti i tipi sociali che hanno preceduto la rivoluzione borghese la ricerca che
ci siamo proposta circa il dosaggio della violenza tra uomini, applicata
allo stato attuale, con percossa e lesione fisica, e la violenza che rimane invece
allo stato potenziale piegando i dominati al volere dei dominatori col gioco
complesso di tutte le sanzioni comminate ma non consumate, prenderemo in esame
la cosa partendo dal confronto tra il mondo sociale dell'«ancien régime» che
precedette la grande rivoluzione e quello capitalistico in cui abbiamo la
particolare soddisfazione di vivere.
Secondo un primo e ben noto schema, la
rivoluzione che attuò i principi della libertà, uguaglianza e fraternità,
espressi soprattutto negli istituti elettivi, fu una conquista tanto universale
quanto definitiva, ovvero in primo luogo migliorò radicalmente le condizioni di
tutti i membri della società liberandoli dalle antiche op-pressioni e
schiudendo loro le gioie di un mondo nuovo; ed in secondo luogo eliminò l'eventualità
storica di ogni ulteriore grande conflitto sociale avente un carattere di
infrangimento violento delle istituzioni e dei rapporti sociali.
Un secondo schema meno ingenuo e meno
sfacciatamente apologetico delle delizie del sistema borghese ammette che in
questo sussistano forti disparità di condizione sociale e un grave sfruttamento
economico ai danni delle classi lavoratrici, e che ulteriori trasformazioni
della società dovranno determinarsi per vie più o meno brusche o più o meno
graduali, ma afferma con ostinata assolutezza che le conquiste della
rivoluzione che condusse al potere la classe capitalistica costituirono
tuttavia un sostanziale vantaggio anche per tutte le altre classi le quali
conseguirono grazie ad essa l'inestimabile bene delle libertà legali e civili.
Non si tratterebbe dunque che di continuare una via già aperta, di eliminare,
dopo talune forme più severe e atroci di dispotismo e di sfruttamento, altre
forme superstiti, tenendo però ben salde quelle prime fondamentali conquiste.
Questo schema abusato viene servito in tutte le foggie o dai vertici della
piramide del potere, quando qualche Roosevelt si degna di elencare dopo le ben
note libertà della vecchia letteratura le nuove libertà dal bisogno e dalla
paura (nell'atto stesso in cui un cataclisma bellico di centuplicata violenza
aumenta a dismisura il numero di creature umane sterminate e affamate) o dalla
base, quando qualche ingenuo esponente del basso politicantismo popolare
formula in nuove parole l'antico intruglio di democrazia e socialismo
cianciando delle libertà sociali che dovremmo aggiungere a quelle civili già
assicurate.
Non dovrebbe essere neppur necessario
rammentare che la decifrazione data dal marxismo del processo storico
dell'avvento capitalistico non ha nulla a che vedere né col primo né col
secondo degli schemi ora ricordati.
Marx non solo non ha mai detto che nella
società capitalistica il grado di sfruttamento, di oppressione e di
sopraffazione, fosse minore che in quella feudale o terriera-artigiana, ma ha
esplicitamente dimostrato il contrario.
Diciamo subito, ad evitare gravi
equivoci, che, se Marx proclamò storicamente la necessità che il Quarto Stato
combattesse a fianco della borghesia rivoluzionaria contro la monarchia, l'aristocrazia
e il clero, se condannò i sistemi di socialismo «reazionario» secondo i quali
gli operai tempestivamente avvertiti del selvaggio sfruttamento che si sarebbe
sfrenato nelle manifatture e nelle industrie dei capitalisti avrebbero dovuto
far blocco contro costoro coi ceti dominanti feudali, e se storicamente il
marxismo più ortodosso e di sinistra riconosce che nella prima fase storica
borghese post-rivoluzionaria la strategia del proletariato non poteva essere
diversa da quella di una risoluta alleanza con la giovane borghesia giacobina,
queste chiare e classiche posizioni non derivano affatto dal presupposto che il
nuovo sistema economico fosse meno esoso ed oppressivo del precedente.
Esse derivano invece da tutta la
concezione dialettica della storia che spiega la successione degli eventi con
le determinazioni delle forze produttive che, dilatandosi e utilizzando sempre
nuove risorse, premono contro le forme istituzionali e i sistemi di potere e ne
causano le crisi e le catastrofi.
Se quindi i socialisti rivoluzionari
seguono da oltre un secolo le vittorie del moderno capitalismo e la sua
impressionante espansione nel mondo guardando ad esse come ad utili condizioni
del divenire sociale, ciò avviene perché le caratteristiche essenziali del capitalismo
- come la concentrazione delle forze produttive, macchine ed uomini, in potenti
unità, la trasformazione di tutti i beni d'uso in beni di scambio, il
concatenamento di tutte le economie che hanno vita sul pianeta - costituiscono
l'unica strada per attuare, dopo altri imponenti conflitti civili, la nuova
società comunista. Il che resta vero e necessario pur sapendosi perfettamente
che la società industriale e capitalistica moderna è peggiore e più feroce di
quelle che l'hanno preceduta.
Naturalmente, questa conclusione è
indigesta per mentalità plasmate secondo l'ideologia borghese e alle quali sono
congeniti gli ideologismi pullulati nel periodo romantico delle rivoluzioni
democratico-liberali. Posta quella tesi al vaglio di criteri sentimentali, letterari
e retorici, essa non potrebbe provocare che la banale indignazione dei
benpensanti, i quali non mancherebbero di rovesciarci sulla testa tutta la loro
farraginosa erudizione sulle nequizie degli antichi dispotismi, gli auto da
fé,
Ma se la ricerca viene impostata
scientificamente e statisticamente, e ci si chiede quanto lavoro umano venga
estorto senza compenso per consentire un godimento privilegiato delle ricchezze
e dei redditi, quanta miseria si determina nel bassofondo sociale, quante vite
vengono sacrificate o stroncate per effetto del disagio economico e, via via,
delle crisi e di scontri aventi carattere di contese private, di guerre civili
o di conflitti militari fra gli stati, l'indice più pesante dovrà essere
calcolato e segnato in conto proprio a questa civile democratica e parlamentare
società borghese.
È fondamentale in Marx, di fronte alla
scandalizzata accusa rivolta ai comunisti di mirare a distruggere la proprietà,
l'affermazione che uno degli aspetti essenziali del rivolgimento sociale
attuato dal capitalismo è la violenta, disumana espropriazione del lavoratore
artigiano.
Prima del sorgere delle grandi
manifatture e delle fabbriche meccaniche, un legame di fatto, tecnico ed
economico, univa l'artefice isolato (o associato a pochi familiari e discepoli)
tanto agli arnesi quanto ai prodotti dell'opera sua. Nel rapporto giuridico gli
era riconosciuto illimitato il diritto di proprietà sui pochi utensili e sul
limitato volume di merci allestite nella sua bottega. L'avvento del capitalismo
infrange questo sistema patriarcale e quasi idilliaco, defrauda l'intelligente
e operoso artigiano del suo modesto possesso e lo trascina nullatenente e
affamato nella galera della moderna azienda borghese. Mentre questo
rivolgimento sì compie, spesso con aperta violenza e sempre sotto la pressione
di inesorabili forze economiche, il suo aspetto giuridico viene definito dagli
ideologi borghesi una conquista della libertà, che svincola il cittadino
lavoratore dalle pastoie delle gilde medioevali e dei regolamenti di
mestiere, facendone un libero uomo in libero stato.
Se questo processo concerne la sfera di
produzione dei manufatti nel suo complesso, non diversa è la presentazione in
termini di marxismo degli sviluppi della produzione agraria. Il regime di
servitù feudale obbligava bensì il lavoratore della terra a privarsi di larghe
quote dei suoi prodotti devolvendole ai ceri dominanti religiosi e nobiliari.
Ma il servo legato alla gleba conservava un legame tecnico-produttivo colla
terra stessa e con una parte dei prodotti, legame che indirettamente gli
offriva una garanzia di vita comoda e tranquilla, dato anche lo scarso
addensamento della popolazione e i limitati scambi di derrate con grandi agglomerati
urbani.
La rivoluzione capitalistica spezza
questi rapporti e afferma di aver liberato il contadino servo di tutta una
serie di sopraffazioni, ma o il lavoratore della terra, ridotto a puro
proletario, segue il destino dell'armata negriera dei lavoratori industriali,
o, trasformato in gestore o proprietario giuridicamente perfetto di piccoli
lotti, viene taglieggiato dallo strozzino capitalista, dall'agente del fisco o
dalla volatilizzazione della moneta.
Non è compito di questo scritto entrare
nel dettaglio di tali analisi, ma le elementari considerazioni ora svolte
basteranno a chi finga di sentire per la prima volta che per Marx la nuova
società borghese era più infame della feudale.
Il punto essenziale da stabilire è
questo: il criterio discriminante per appoggiare o combattere uno svolgimento
storico non è quello, inconsistente e vanamente letterario, di ricercare se si
è attuata e conseguita più eguaglianza, più giustizia, più libertà, ma l'altro
totalmente diverso e molte volte opposto di chiedersi se la nuova situazione ha
favorevolmente avviato e promosso lo sviluppo di più potenti e complesse forze
produttive a disposizione della società, forze che sono la premessa
indispensabile della futura organizzazione della società medesima nel senso del
maggior rendimento del lavoro per una più larga disponibilità di beni di
consumo a vantaggio di tutti.
Era indispensabile oltre che utile che
la borghesia con la guerra civile abbattesse gli ostacoli istituzionali che
ritardavano il sorgere delle grandi fabbriche e un più moderno sfruttamento
della terra; e di fronte a questo poco importa che la prima e immediata
conseguenza, transitoria in un più vasto senso storico, sia stata di rendere
più pesanti e odiose le catene della disparità sociale e dello sfruttamento
della forza lavoro.
• • •
La critica del socialismo scientifico ha
messo chiaramente in evidenza che la grande trasformazione sociale attuata dal
capitalismo (trasformazione storicamente matura e feconda a sua volta di
sviluppi grandiosi) non va affatto definita né come una radicale liberazione
interessante le grandi masse, né come un sensibile balzo innanzi nel loro
tenore economico di vita. La trasformazione degli istituti riguarda unicamente
il modo di schieramento e di organamento della piccola minoranza privilegiata e
dominante.
I componenti delle classi privilegiate
preborghesi erano intrecciati in un sistema basato su fitte gerarchie. I grandi
prelati appartenevano all'ordinata e inquadratissima rete della chiesa; i
nobili, che erano anche i più alti funzionari civili e militari, erano
gerarchicamente disposti nel sistema feudale che aveva al suo vertice il
monarca.
Nel nuovo tipo di società, per contro -
e qui si intenda che, trascurando tutte le importantissime differenze di
periodi e di nazioni, parliamo della prima e classica società economica
borghese basata sulla illimitata libertà di produzione e di scambio - i
componenti dello strato supremo e privilegiato sono pressoché totalmente
sciolti da legami di interdipendenza, in quanto ogni padrone di azienda è
libero da qualsiasi obbligo verso i suoi colleghi e concorrenti nel dirigere le
proprie operazioni e iniziative. Questo trapasso tecnico e sociale prende, nel
succedersi delle ideologie, l'aspetto di una svolta storica dal mondo dell'autorità
a quello della libertà.
Ma è chiaro che questa conquista, questo
sensazionale cambiamento di scena ha per teatro non l'insieme dell'agglomerato
sociale ma la ristretta pedana sulla quale si muovono i fortunati, i componenti
lo strato dei ventri pieni e dorati, integrato dalla ristretta cerchia dei loro
diretti agenti e manutengoli: politicanti, pubblicisti, sacerdoti, maestri,
alti funzionari e simili.
La gran massa dei ventri semivuoti
rimane assente non certo da questa immane tragedia, cui anzi partecipa lottando
con sacrificio di vite e di sangue, ma dalla partecipazione ai benefici del
mutamento.
La conquista giuridica della libertà,
proclamata in tutte le carte e costituzioni retaggio di tutti i cittadini, non
riguarda dunque la maggioranza, sfruttata e affamata ancor più di prima, ma è faccenda
interna di una minoranza. Ed è alla luce di questo criterio che vanno
risolti tutti i quesiti storici e attuali in cui si ripropone il postulato
stucchevole della libertà e della democrazia.
Ridotta a scala individuale, la tesi
materialista afferma che, poiché il cervello funziona quando lo stomaco può
nutrirsi, il diritto teorico a liberamente pensare ed esprimere il proprio
pensiero interessa di fatto solo chi ha la possibilità di tale attività superiore,
possibilità perfettamente contestabile a molti che ne menano vanto di continuo,
ma comunque sicuramente preclusa alla schiera dei ventri insufficientemente
riempiti.
Alla crudezza di questa tesi segue
abitualmente lo scatenarsi delle rampogne contro il piatto e osceno
materialismo che, conoscendo il solo fattore economico ed alimentare, ignora
tutta la radiosa sfera della vita dello spirito e disconosce le soddisfazioni
non riducibili a sensazioni fisiche, che l'uomo dovrebbe trarre dall'uso della
ragione, dal riconoscimento delle civili libertà, dal godimento dei diritti di
cittadino elettore che sceglie i suoi rappresentanti e i capi dello stato.
Ma a tal proposito conviene ancora una
volta - poiché non si espongono qui davvero cose nuove, ma tutt'al più si
verificano con fatti recenti teorie ben note - rettificare la portata del
determinismo economico professato dai marxisti contro una corrente
deformazione, più ostinata a non guarire della rogna e di simili malattie
attaccaticce, che riduce il problema alla meschina scala individuale, e
pretende che ogni individuo tenda ad adottare in politica, in filosofia, in
religione, opinioni derivate dal rapporto economico in cui vive, e
meccanicamente svolgentisi dalla molla dei suoi appetiti e dei suoi interessi.
Il gran proprietario terriero sarà bacchettone forcaiolo e destro, l'affarista
borghese conservatore in economia ma talvolta, almeno fino a ieri,
sinistreggiante in filosofia e in politica, l'uomo dei ceti medi più o meno
democratico, il lavoratore infine materialista, socialista, rivoluzionario.
Un simile marxismo ad uso del delfino
demo-borghese fa molto comodo per stabilire ottimisticamente che costituendo i
lavoratori, economicamente oppressi, la gran maggioranza dei popoli, essi non tarderanno
ad avere nelle mani gli organismi rappresentativi ed esecutivi e, via via
proseguendo, la ricchezza e il capitale. Naturalmente, sarà gran vantaggio per
il rapido moto di questa giostra da fiera far pencolare a sinistra opinioni,
credenze e schieramenti politici, combinando blocchi e pasticci con tutta la
melma dei ceti intermedi, che andrebbero progressivamente evolvendosi, e
pronunziandosi contro la politica e il privilegio delle alte classi.
Al posto di questa sciocca caricatura,
il marxismo traccia linee totalmente diverse, e stabilisce invece, quando parla
di sovrastrutture ideologiche, politiche, mistiche che trovano la loro
spiegazione nelle sottostanti condizioni e rapporti economici, una legge e un
metodo di portata generale e sociale. Per spiegare il significato delle
ideologie prevalenti in una data epoca storica presso un popolo governato con
un dato regime, noi dobbiamo fondare l'analisi sui dati della tecnica
produttiva e dei rapporti di ripartizione dei beni e dei prodotti, sui rapporti
di classe tra gruppi privilegiati e collettività produttrici.
In breve, e in parole povere, la legge
del determinismo economico dice che in ciascuna epoca l'opinione generalmente
prevalente, il pensiero politico filosofico e religioso più accreditato e
seguito è quello che corrisponde agli interessi della minoranza dominante che
detiene nelle sue mani il privilegio e il potere. Così i sacerdoti e dottori
degli antichi popoli orientali giustificheranno il dispotismo e l'immolazione
di vite umane, quelli pagani dimostreranno benefica e giusta la schiavitù,
quelli cristiani la proprietà e la monarchia, quelli dell'epoca democratica e
illuministica gli schemi economici e giuridici che convengono al capitalismo.
Allorché un tipo di società e di
produzione entra in crisi e nel campo della tecnica e della produzione si
destano forze che tendono ad infrangerne i limiti, i conflitti di classe
scoppiano più acuti ed hanno il loro riflesso anche nel sorgere di nuove
dottrine di opposizione e sovversione, che vengono condannate e combattute
dalle istituzioni dominanti. Quando una società è in crisi, una delle
caratteristiche della fase che allora si apre è il numero relativamente sempre
più ristretto di persone che beneficiano del regime in vigore; tuttavia,
l'ideologia rivoluzionaria non prevale nella massa ma in una sua minoranza di
avanguardia in cui confluiscono persino elementi della classe dirigente. Per
inerzia, e per effetto dei formidabili mezzi di fabbricazione delle opinioni di
cui dispone ogni classe dominante, la massa muterà ideologie, filosofie e
religioni solo in un lungo periodo successivo al crollo delle antiche
impalcature di dominio. Si deve anzi affermare che una rivoluzione è veramente
matura quando, benché le opinioni dominanti con la loro spaventosa inerzia
reazionaria continuino a rimasticare i vecchi dettami tradizionali, tanto nel
seno della massa che ne è vittima, quanto fra i ceti superiori depositari del
regime, il fatto reale e fisico dell'inadeguatezza dei sistemi di produzione li
pone contro gli stessi interessi materiali della classe privilegiata in larghi
suoi strati.
Così, lo schiavismo cadde
definitivamente, malgrado le ostinate resistenze sul piano delle idee e su
quello delle forze, quando si rivelò un sistema poco redditizio di sfruttamento
del lavoro e poco vantaggioso per i padroni.
La liberazione di una classe oppressa
non procede quindi, per dirla in modo spiccio, prima negli spiriti e poi nei
corpi, ma deve redimere il ventre molto prima del cervello.
Ora, le forze di ingannatrice
mobilitazione delle opinioni della massa nel senso che interessa il ceto
privilegiato sono, nella società capitalistica, molto più potenti che in quelle
pre-borghesi. Scuola, stampa, oratoria pubblica, radio, cinema, associazioni di
ogni specie, rappresentano mezzi di un potenziale centinaia di volte più forte
di quelli a disposizione delle società dei secoli passati. In regime
capitalistico il pensiero è una merce, e lo si produce su misura impiegando
sufficienti impianti e mezzi economici alla sua fabbricazione in serie. Se
Germania ed Italia ebbero i Ministeri della Propaganda e della Cultura
Popolare,
Questo fattore sociale della
manipolazione dall'alto delle idee, che va dalla falsa notizia (nell'attuale
organizzazione giornalistica le versioni di un fatto sono già tutte compilate
prima che il fatto accada, e quando sembra che uno degli informatori abbia
ragione si tratta pur sempre di un bugiardo; era il povero fatto che doveva
accadere secondo uno degli schemi comodo a questo o a quello stato, a questo o
a quel partito) fino alla critica e all'opinione bell'e fatta, non deve
sembrare di poco peso. Esso si inquadra nella massa delle violenze virtuali,
che cioè non prendono l'aspetto di una imposizione brutale con mezzi
coercitivi, ma sono tuttavia risultato ed esplicazione di forze reali, che
deformano e spostano situazioni effettive.
Il moderno tipo di società borghese
democratica, pur non scherzando nella consumazione di effettive violenze
«cinetiche» di polizia e di guerra, e battendo anche per questo coefficiente i
diffamati vecchi regimi, porta a massimi sconosciuti (e comparabili ai suoi
massimi di produzione e di concentrazione della ricchezza) anche il volume di
questa applicazione di violenze virtuali, per cui gruppi di massa si
presentano, per apparente libera scelta di confessioni, di opinioni e di
credenze, come agenti contro i propri interessi obiettivi, e accettano le
giustificazioni teoriche di legami ed atti sociali che in realtà li affamano o
li distruggono addirittura.
Il trapasso dalle forme pre-borghesi
alla società attuale ha dunque aumentato e non diminuito l'intensità e la
frequenza del fattore della sopraffazione e dell'imposizione.
E quando, dal punto di vista marxista,
si esige per le dette ragioni che quel fondamentale trapasso storico sia pieno
e compiuto, non si vuole certo dimenticare o contraddire questa posizione
fondamentale.
Solo con criteri coerenti a quelli qui
stabiliti deve giudicarsi e decifrarsi il problema oggi attuale e scottante di
una trasformazione nei modi di amministrare e governare della borghesia, che
corrisponde al sorgere dei regimi totalitari dittatoriali e fascisti.
Tale trapasso non costituisce un
mutamento di classe dominante, e tanto meno una rottura rivoluzionaria dei modi
di produzione. Nel farne la critica, bisogna però evitare i banali errori che,
in conformità alle notissime deviazioni dal marxismo qui confutate,
condurrebbero ad accreditare alla forma e alla fase democratico-parlamentare
una minore intensità e densità della violenza di classe.
Questo criterio, anche se rispondesse ai
fatti, non sarebbe comunque sufficiente a farci propugnare e difendere tale
fase, per le ragioni dialettiche applicate alla valutazione dei trapassi
precedenti. Ma l'analisi di questo punto potrà anche dimostrare che chi sfugge
alla suggestione di considerare la sola violenza in atto e misura invece tutto
il volume di quella potenziale insita nella vita e nella dinamica della
società, eviterà di cadere nell'inganno di preferire, sia pure in via subordinata
e relativa, il metodo ipocrita e il mefitico ambiente della democrazia
liberale.
III. Regime borghese come dominazione
In questo studio si esamina la portata
dell'impiego della forza nei rapporti sociali, distinguendo tra le
manifestazioni palesi di violenza spinta sino alla strage, e il gioco delle
imposizioni che si attuano senza resistenza materiale della persona o del
gruppo che le subisce, in virtù di una sanzione comminata ai trasgressori o
comunque di una disposizione delle vittime a riconoscere la norma che loro
sovrasta.
Nella prima parte abbiamo stabilito un
raffronto tra questi due tipi del manifestarsi dell'energia nel campo sociale,
e le due forme in cui l'energia si manifesta nel mondo fisico: quella attuale e
cinetica, o di movimento, che si accompagna all'urto ed alla esplosione dei più
svariati agenti; e quella virtuale e potenziale, o di posizione, che, pur non
dando luogo a tali manifestazioni, ha parimenti gioco importantissimo
nell'insieme dei fatti e dei rapporti di cui si tratta.
Tale raffronto, svolto dal campo fisico
a quello biologico e a quello umano, lo abbiamo seguito con brevi cenni nel
corso delle epoche storiche, e, pervenendo al presente periodo borghese
capitalistico, abbiamo mostrato che in esso il gioco della forza e della
violenza nei rapporti economici, sociali e politici tra individuo e individuo e
soprattutto tra classe e classe, non solo ha un peso grandissimo e
fondamentale, ma, se di una misura potesse parlarsi, assume frequenza e vastità
assai maggiori che nelle epoche precedenti e nei tipi di società
precapitalistiche.
A una misura economico-sociale in una
indagine di più vasta portata è possibile ricorrere, qualora si cerchi di
ridurre a cifre il valore della somma di lavoro umano estorto a beneficio delle
classi privilegiate alle grandi masse che lavorano e producono. Nella società
moderna, poiché è sempre diminuita l'aliquota degli individui e dei gruppi
economici che riescono a vivere in un proprio ciclo autonomo consumando ciò che
producono senza rapporti con l'esterno, è grandemente aumentato il numero di
coloro che lavorano per conto altrui e che ricevono una remunerazione che
compensa solo una parte del loro sforzo, e le distanze sociali tra il tenore di
vita della grande maggioranza produttrice e quello dei membri delle classi
abbienti è aumentata enormemente. Non è infatti la esistenza singola di uno o
pochissimi grandi dominatori che vivano nel lusso quello che conta, ma la massa
di ricchezze che una minoranza sociale riesce a destinare a scopi voluttuari di
ogni genere quando la maggioranza riceve poco più dello stretto necessario
della vita.
Poiché il nostro tema più che al lato
economico tendeva al lato politico della questione, il quesito che dobbiamo porci
nei confronti del regime di privilegio e di dominio capitalistico è quello
della relazione tra l'uso della violenza bruta e quello della forza virtuale
che piega i diseredati al rispetto dei canoni e delle leggi vigenti senza che
si attui l'infrazione o la rivolta.
Tale relazione varia moltissimo a
seconda delle varie fasi della storia del capitalismo e a seconda dei vari
paesi in cui questo è stato introdotto. Si possono citare esempi di zone neutre
e quasi idilliache dove la forza dello stato viene maggiormente vantata come
liberamente accetta da parte di tutti i cittadini, dove è mantenuta una ridotta
polizia, dove gli stessi conflitti di interessi sociali tra lavoratori e datori
di lavoro si esplicano con l'impiego di mezzi pacifici. Ma queste Svizzere
tendono a diventare, nello spazio e nel tempo, oasi sempre più rare nel quadro
mondiale del capitalismo.
Questo ai suoi inizi storici non poté
conquistare le sue posizioni senza lotte aperte e sanguinose, in quanto i
vincoli costituiti dalla impalcatura statale dei vecchi regimi potevano essere
infranti soltanto colla forza. La sua espansione nei continenti extraeuropei
con le spedizioni coloniali e le guerre di conquista e di preda fu non meno
sanguinosa, perché solo con la strage si poté sostituire ai modi di
organizzazione sociale delle popolazioni indigene quello capitalistico, e in
alcuni casi intere razze umane furono sterminate, fatto ignoto alle civiltà
preborghesi.
In linea generale, dopo questa fase
virulenta di nascita e di affermazione del capitalismo, si apre un suo periodo
intermedio di sviluppo, che pure essendo ad ogni tratto intermezzato sia da
scontri sociali e da repressione dei moti delle classi sacrificate, che da
guerre tra gli stati, non interessanti tuttavia l'intero mondo conosciuto, è
quello che più si è prestato alla apologetica liberale e democratica tendente a
mostrare falsamente un mondo in cui, tolti i casi eccezionali e patologici, i
rapporti tra i singoli e tra le categorie si svolgevano con un massimo di
ordine, di pace, di consenso spontanei e di libera accettazione.
Sia detto tra parentesi che nel
riferirsi agli strappi delle guerre coloniali o nazionali, delle rivolte, delle
insurrezioni, delle repressioni, che costituiscono anche nelle fasi più
scorrevoli e tranquille della storia borghese il campo di applicazione della
violenza palesemente scatenata, deve osservarsi che vi è l'elemento tecnico,
ben degno di essere chiamato progressivo, per cui in queste crisi lo
spargimento di sangue ed il numero delle vittime tende a crescere, a parità di
altre condizioni, rispetto alle crisi del passato. Infatti parallelamente al
perfezionarsi dei mezzi di produzione si potenziano quelli di offesa e di
distruzione, si creano armi più tremende, e i vuoti che potevano fare i
pretoriani passando a fil di spada gli ammutinati contro Cesare erano scherzi
al paragone di quelli che fa la mitraglia contro gli insorti dell'epoca
moderna.
Ma ciò che interessa è mostrare che
anche in lunghe fasi di amministrazione incruenta del dominio capitalistico, la
forza di classe non cessa di essere presente e la sua influenza virtuale contro
i possibili scarti di individui isolati, di gruppi organizzati o di partiti,
resta il fattore dominante per la conservazione dei privilegi e degli istituti
della classe superiore. Abbiamo già annoverato tra le manifestazioni di questa
forza di classe, non solo tutto l'apparato statale con le sue forze armate e la
sua polizia, quando anche resti con l'arma al piede, ma tutto l'armamentario di
mobilitazione ideologica giustificatrice dello sfruttamento borghese, attuato
con la scuola, la stampa, la chiesa e tutti gli altri mezzi con cui vengono
plasmate le opinioni delle masse. Questa epoca di apparente tranquillità è solo
turbata talvolta da inermi dimostrazioni degli organismi di classe proletari, e
il buon borghese può dire, dopo il corteo di primo maggio, come nei versi del
poeta: «grazie a Cristo e al questore, anche questa è passata». Allorché il
turbamento sociale brontola più minaccioso, lo stato borghese comincia a mostrare
la sua potenza con le misure di tutela dell'ordine: un'espressione tecnica
della polizia di stato dà una felice idea dell'uso della violenza virtuale: «la
polizia e le truppe sono consegnate nelle caserme». Ciò vuol dire che non si
combatte ancora sulla piazza, ma se l'ordine borghese e i diritti padronali
fossero minacciati, le forze armate uscirebbero dalle loro sedi e aprirebbero
il fuoco.
La critica rivoluzionaria, non
lasciandosi incantare dalle apparenze di civiltà e di sereno equilibrio dell'ordine
borghese, aveva da tempo stabilito che anche nella più democratica repubblica
lo stato politico costituisce il comitato di interessi della classe dominante,
sgominando in modo decisivo le rappresentazioni imbecilli secondo cui, da
quando il vecchio stato feudale clericale e autocratico fu distrutto, sarebbe
sorta, grazie alla democrazia elettiva, una forma di stato nella quale a ugual
diritto sono rappresentati e tutelati tutti i componenti la società qualunque
ne sia la condizione economica. Lo stato politico, anche e soprattutto quello
rappresentativo e parlamentare, costituisce una attrezzatura di oppressione.
Esso può ben paragonarsi al serbatoio delle energie di dominio della classe
economica privilegiata, adatto a custodirle allo stato potenziale nelle
situazioni in cui la rivolta sociale non tende ad esplodere, ma adatto
soprattutto a scatenarle sotto forme di repressione di polizia e di violenza
sanguinosa non appena dal sottosuolo sociale si levino i fremiti rivoluzionari.
Tale è il senso delle classiche analisi
di Marx e di Engels sui rapporti tra società e stato ossia tra classi sociali e
stato, e tutti i tentativi di scuotere questo cardine della dottrina di classe
del proletariato furono schiacciati nel ripristino dei valori rivoluzionari realizzato
da Lenin, da Trotzky e dalla Internazionale Comunista subito dopo la prima
guerra mondiale.
Come non ha senso scientifico stabilire
l'esistenza di un quantum di energia potenziale se non si può prevedere che in
situazioni successive questa si sprigionerà allo stato cinetico, così la
definizione marxista del carattere dello stato politico borghese rimarrebbe
priva di senso e di conseguenza se non corrispondesse alla certezza che nella
fase culminante questo organo di potenza del capitalismo non potrà mancare di
scatenare allo stato attuale tutte le sue risorse contro l'erompere della
rivoluzione proletaria.
D'altra parte l'equivalente delle tesi
marxiste sul crescere della miseria, sulla accumulazione e la concentrazione
del capitale, nella sfera di fatti politici, non poteva essere altro che il
concentrarsi, che il potenziarsi dell'energia racchiusa nella impalcatura
statale. Ed infatti, chiusa con lo scoppio della guerra del
Quando i primi regimi fascisti sono
apparsi e si sono presentati alla più immediata e banale interpretazione come
una riduzione e una abolizione delle cosiddette garanzie parlamentari e
legalitarie, si trattava in effetti puramente, in dati paesi, di un passaggio
dell'energia politica di dominio della classe capitalistica dallo stato
virtuale allo stato cinetico.
Era palese ad ogni seguace della
prospettiva marxista, definita come catastrofica dagli stupidi eviratori della
potenza rivoluzionaria di quella dottrina, che il crescente stridore delle
antitesi di classe avrebbe spostato il contrasto degli interessi economici sul
piano di un irrompente attacco rivoluzionario sferrato dalle organizzazioni del
proletariato contro la cittadella dello stato capitalistico, e che esso, a
questo punto, scoprendo le sue batterie, avrebbe ingaggiato la lotta suprema
per la sua conservazione.
In determinati paesi e in determinate
situazioni, come ad esempio nell'Italia del 1922 e nella Germania del 1933,
la tensione dei rapporti sociali, la instabilità del tessuto economico
capitalistico, la crisi - in forza di vicende belliche - della stessa
impalcatura dello stato, divennero così acute che la classe dominante intravide
vicino il momento ineluttabile in cui, frusti ormai tutti gli inganni della
propaganda democratica, avrebbe dovuto attendersi la soluzione dell'urto
violento delle opposte classi.
Si verificò allora quella che si definì
giustamente come offensiva padronale. La classe borghese che aveva fino allora,
nel pieno sviluppo del suo sfruttamento economico, mostrato di sonnecchiare
dietro l'apparente bonomia e tolleranza delle sue istituzioni rappresentative e
parlamentari, riuscita a raggiungere un grado di strategia storica grandemente
apprezzabile, ruppe gli indugi e prese l'iniziativa pensando che ad una suprema
difesa del fortilizio dello stato contro l'assalto della rivoluzione (tendente
secondo l'insegnamento di Marx e di Lenin non ad occu-parlo, ma a spezzarlo in
frantumi fino alle ultime conseguenze) fosse preferibile una sortita dai suoi
bastioni ed un'azione offensiva volta a infrangere le posizioni di partenza
dell'organizzazione proletaria.
Fu quindi di poco anticipata una
situazione che nella prospettiva rivoluzionaria era chiaramente prevista in quanto
i comunisti marxisti non avevano mai pensato di poter attuare il trapasso alla
realizzazione del loro programma senza questo supremo scontro tra le opposte
forze di classe, e in quanto tutta l'analisi della più recente evoluzione del
capitalismo e del grandeggiare delle mostruose sue formazioni statali nella
loro gigantesca impalcatura lasciava chiaramente intendere l'inesorabilità di
questo sviluppo.
Il grande errore di valutazione di
tattica e di strategia che favorì la vittoria della controrivoluzione fu quello
di deprecare questa potente conversione del capitalismo dal terreno della
ipocrisia democratica a quello dell'aperta azione di forza come un movimento
revocabile nella storia, e del contrapporgli non la richiesta dell'abbattimento
della forza capitalistica, ma la stupida e imbelle pretesa che questa,
rifacendo all'inverso quel cammino storico che noi marxisti le avevamo sempre
attribuito, e per comodità personale di capi politici istrioni e vigliacchi, si
com-piacesse di rinculare dallo sfoderamento delle sue armi di classe sulla
posizione vuota e superata della mobilitazione senza guerra che costituiva il
compiacente aspetto del periodo precedente.
L'equivoco sostanziale sta nell'essersi
meravigliati, nell'aver piagnucolato, nell'aver deplorato che la borghesia
attuasse senza maschera la sua dittatura totalitaria, quando invece noi
sapevamo benissimo che questa dittatura era sempre esistita, che sempre
l'apparato dello stato aveva avuto, in potenza se non in atto, la funzione
specifica di attuare, di conservare, di difendere dalla rivoluzione il potere e
il privilegio della minoranza borghese. L'equivoco è consistito nel preferire
una atmosfera borghese democratica a un'atmosfera fascista, nello spostare il
fronte della lotta dal postulato della conquista proletaria del potere a quello
dell'illusoria restaurazione di un modo democratico di governare del
capitalismo sostituito a quello fascista.
Lo sbaglio fatale è consistito nel non
intendere che in qualunque modo la vigilia rivoluzionaria attesa per tanti
decenni avrebbe presentato dinanzi all'avanzata proletaria uno stato borghese
schierato a difesa armata e che quindi tale situazione doveva apparire come
progressiva e non regressiva rispetto a quella degli anni di apparente pace
sociale e di limitato impulso della forza di classe del proletariato. Il male
arrecato allo sviluppo delle energie rivoluzionarie e alle prospettive per
l'attuazione di una società socialista non è dipeso dal fatto che la borghesia
organizzata a tipo fascista sia più potente e più efficiente nella difesa del
suo privilegio di una borghesia ancora organizzata a tipo democratico. La
potenza e l'energia di classe è nei due casi la stessa; in fase democratica si
tratta di energia potenziale; sulla bocca del cannone si tiene l'innocua
custodia di tela. In fase fascista l'energia si manifesta allo stato cinetico,
il cappuccio è tolto, il colpo deflagra. La richiesta disfattista e idiota
rivolta dai capi traditori del proletariato al capitalismo sfruttatore e
oppressore è quella di rimettere l'ingannevole schermo sulla bocca dell'arma.
Per tal modo l'efficienza del dominio e dello sfruttamento non sarebbe
diminuita ma soltanto incrementata dal rinnovato espediente dell'inganno
legalitario.
Poiché sarebbe ancora più insensato chiedere
al proprio nemico di disarmare, bisogna accogliere con letizia il fatto che
egli, costretto dalle urgenze della situazione, sveli le proprie armi, poiché
sarà meno difficile affrontarle e infrangerle.
Il regime borghese di dittatura adunque
è una fase immancabile e prevista della vita storica del capitalismo il quale
non morirà senza averla esperita. Lottare per il rinvio di questo palesarsi
delle opposte energie sociali di classe, svolgere una propaganda vana e
retorica ispirata a uno stupido orrore di principio per la dittatura, è tutto
lavoro svolto soltanto a favore del sopravvivere del regime capitalistico, del
prolungarsi dell'asservimento e della oppressione sulla classe lavoratrice.
• • •
Altra conclusione molto fondata, per
quanto molto atta a far gridare tutte le oche delle sinistre borghesi, è che
nel confronto tra la fase capitalistica di democrazia e quella di totalitarismo
la somma dell'oppressione di classe è maggiore nella prima, pure restando
pacifico che la classe dominante tende a scegliere sempre quella più utile alla
sua conservazione. Il fascismo scatena indubbiamente una maggiore massa di
violenze di polizia e di repressioni consumate anche sanguinosamente, ma tale
aspetto di energia attuale disturba soprattutto gravemente, insieme ai
pochissimi autentici capi e quadri rivoluzionari del movimento operaio, uno
strato di mezzi borghesi professionisti della politica che si atteggiano a
progressivi e amici della classe operaia, ma in realtà non sono che la milizia
dei padroni specializzata per il servizio in tempi di commedia parlamentare.
Quelli che non fanno a tempo a mutare stile e livrea sono sgombrati a pedate:
di qui la maggior parte delle strida.
Quanto alla massa della classe lavoratrice
essa seguita ad essere sfruttata come sempre è stata nel campo economico, e le
avanguardie che si formano nel suo seno per l'assalto al regime presente
seguitano, appena imboccano la giusta via antilegalitaria di azione, ad avere
quel piombo che le attende anche da parte dei governi borghesi democratici,
come nei mille esempi da parte dei repubblicani in Francia nel '48 e '71, da
parte dei socialdemocratici in Germania nel 1919, ecc.
Ma il nuovo metodo pianificatore di
condurre l'economia capitalistica, costituendo, rispetto all'illimitato
liberismo classico del passato ormai tramontato, una forma di autolimitazione
del capitalismo, conduce a livellare intorno ad una media l'estorsione di
plusvalore. Vengono adottati i temperamenti riformistici propugnati dai
socialisti di destra per tanti decenni, e vengono così ridotte le punte massime
e acute dello sfruttamento padronale, mentre le forme di materiale assistenza
sociale vanno sviluppandosi. Tutto ciò tende al fine di ritardare le crisi di
urto tra le classi e le contraddizioni del metodo capitalistico di produzione,
ma indubbiamente sarebbe impossibile pervenirvi senza riuscire a conciliare, in
una certa misura, l'aperta repressione delle avanguardie rivoluzionarie, e un
tacitamento dei bisogni economici più impellenti delle grandi masse. Questi due
aspetti del dramma storico che viviamo sono condizione l'uno dell'altro: il
vecchio Churchill ha detto con ragione ai laburisti: non potrete fondare una
economia di stato senza uno stato di polizia. Più interventi, più regole, più
controlli, più sbirri. Il fascismo consiste nella integrazione tra l'abile
riformismo sociale e l'aperta difesa armata del potere statale. Non tutti i
suoi esempi sono alla stessa altezza, ma quello tedesco, spietato nell'eliminare
i suoi avversari fin che si vuole, attuò un tenore di vita economica media
molto alto e una amministrazione tecnicamente ottima, e quando prescrisse
limitazioni di guerra le fece pesare anche sulle classi abbienti in una
inattesa misura.
Adunque se in fase totalitaria
l'oppressione borghese di classe aumenta la proporzione di impiego cinetico
della violenza rispetto a quella potenziale, l'insieme della pressione sul
proletariato non ne risulta aumentato ma diminuito. Appunto per questo la crisi
finale della lotta di classe subisce storicamente un rinvio.
La morte delle energie rivoluzionarie è
nella collaborazione tra le classi. La democrazia è una collaborazione di
classe a chiacchiere, il fascismo è collaborazione di classe in fatto. Stiamo
vivendo questa fase storica in pieno. La ripresa della lotta tra le classi
uscirà dialetticamente da una fase ulteriore, ma per ora sia stabilito che non
può uscire dallo schieramento delle classi lavoratrici sulla istanza del
ritorno al liberalismo, in cui nulla hanno da guadagnare, nemmeno
relativisticamente.
• • •
Questa esposizione si riferisce
soprattutto all'impiego della forza, della violenza e della dittatura da parte
delle classi dominanti; non esaurisce l'argomento dell'impiego di tali energie
da parte del proletariato nella lotta per prendere il potere e nel suo
esercizio, punto importante da riservare ad altre trattazioni. Ma restando
ancora nell'ambito dello studio delle forme borghesi di dittatura, non sarà
male precisare che parlando di metodo capitalistico fascista totalitario e
dittatoriale noi ci riferiamo sempre ad azioni ed organamenti collettivi e non
vediamo prevalere sullo sfondo storico le persone dei dittatori, che tanto
occupano l'attenzione del pubblico abilmente montata, con pari effetto, da
fautori e denigratori.
In pieno svolgimento di questa ultima
guerra due dei grandi sono stati eliminati: Roosevelt e Churchill; in
sostanza nulla è mutato nel processo in esame. Lasciando andare l'Italia in cui
gli esempi del fascismo e dell'antifascismo hanno avuto molto di burattinesco
(il primo saggio di ogni innovazione fa sempre ridere, come le prime automobili
visibili in museo rispetto ad una macchina moderna di serie), in Germania la
persona di Hitler rappresentava un fattore superfluo del potente inquadramento
nazista di forze; il regime sovietico farà benissimo a meno di Stalin a suo
tempo; l'altro impressionante apparato energetico del Giappone si basava su
caste e su classi senza un capo personale.
Si può uscire dalla marea travolgente di
menzogne di cui si abbevera l'odierna opinione solo dando una caccia spietata
non soltanto al feticcio di quel protagonista oramai ridotto al lumicino che è
l'individuo del basso, l'uomo della strada, l'uomo qualunque, ma anche al più
brillante e portato nella luce dei riflettori che è l'individuo messo in alto,
il Capo, il Grande.
Che viviamo in tempo di autogoverno dei
popoli non lo credono neppure le galline.
Ma non siamo neanche in mano a pochi
grandi uomini. Siamo in mano a pochissimi grandi Mostri di classe, ai massimi
stati della terra, macchine di dominio la cui strapotenza pesa su tutti e su
tutto, il cui accumulare senza mistero energie potenziali prelude, da tutti i
lati dell'orizzonte, e quando la conservazione degli istituti presenti lo
richieda, allo spiegamento cinetico di forze immense e stritolatrici, senza la
minima esitazione, da nessuna parte, innanzi a scrupoli civili morali e legali,
ai principi ideali di cui gracchia da mane a sera l'ipocrisia infame e venduta
delle propagande.
IV. Lotta
proletaria e violenza
Le prime tre parti si riferivano per
rapidi accenni allo svolgimento delle lotte di classe che ci ha presentato la
storia fino all'avvento della presente società borghese; si rifacevano alla
visione che del problema il socialismo marxista ha dato già da gran tempo, ma
che di continuo è oggetto di deviazione e confusione.
Per una chiara presentazione si è
applicata la fondamentale distinzione tra energia allo stato potenziale o virtuale,
ossia suscettibile di entrare in azione ma non ancora esplicantesi, ed energia
allo stato attuale o cinetico, ossia posta già in movimento e determinante i
suoi svariati effetti, ricordandone il senso nel mondo fisico, ed estendendo la
distinzione in modo assai semplice ai fatti della vita organica e della società
umana.
Si è quindi posto il problema del
riconoscimento della violenza e della forza coattiva nei fatti sociali,
insistendo sul criterio che essa non va riconosciuta solo quando si ha la
brutale azione fisica sull'organismo dell'uomo, con il vincolo la percossa e
l'uccisione, ma in tutto il campo assai più vasto in cui le azioni dei singoli
sono rese coatte dalla semplice minaccia e sanzione degli atti di forza. Tale
coazione sorge inseparabilmente dalle prime forme di attività produttiva
associata e quindi di società cosiddetta civile e politica; essa è un fatto
indispensabile nello svolgimento di tutto il corso della storia e
dell'avvicendarsi delle istituzioni e delle classi. Si tratta non di esaltarla
o condannarla ma di riconoscerla e valutarla nel trascorrere dei tempi e nelle
varie situazioni.
La seconda parte era un confronto tra la
società feudale e quella borghese capitalistica ed era dedicata alla
dimostrazione della tesi (non certo nuova) che il trapasso, fondamentale nella
evoluzione della tecnica produttiva e della economia, non si accompagnò ad un
minore grado di impiego di forza, di violenza, di sopraffazione sociale.
Il tipo capitalistico di economia e di
società è per Marx il più antagonistico che la storia abbia fin qui
presentato; nel formarsi, nello svilupparsi, nel resistere alla sua sparizione
esso determina un massimo prima ignorato di sfruttamento, di persecuzione, di sofferenza
umana. Il massimo è tale in qualità e in quantità, in potenziale e in massa, in
acutezza e in estensione, e, per tradurre nei termini etico-letterari che non
sono i nostri, in ferocia e in vastità di applicazione, che ha raggiunto le
masse i popoli le razze di ogni angolo della terra.
La terza parte ha trattato poi il
confronto tra le forme liberal-democratiche e quelle fasciste-totalitarie del
dominio borghese, mostrando l'illusione che le prime abbiano carattere meno
oppressivo e più tollerante. Quando alla considerazione banale della violenza
palesemente in atto si sostituisce quella dell'effettivo potenziale dei moderni
apparati di stato, ossia della loro attitudine e capacità a resistere ad ogni
assalto rivoluzionario antagonista, è facile sostituire alla cieca volgare
opinione odierna che tripudia poiché due guerre mondiali avrebbero respinte
indietro forze di reazione e tirannia, la constatazione evidente che il sistema
capitalistico ha più che raddoppiata la sua possanza, concentrata nei grandi
mostri statali e nella costruzione in corso del Leviathan mondiale del
dominio di classe. Constatazione che si deve chiedere non all'esame degli
istrionismi giuridici pennaioleschi od oratori, più rivoltanti ora che presso i
battuti regimi del Tripartito, ma alla calcolazione scientifica delle forze
finanziarie, militari, di polizia, alla misura della accumulazione e
concentrazione vertiginosa del capitale privato o pubblico, sempre borghese.
Rispetto al 1914, al 1919, al 1922, al
1933, al 1943, il regime capitalistico del 1947 è più pesante, sempre più
pesante, nello sfruttamento economico e nella oppressione politica sulle masse
che lavorano e su chiunque e qualunque cosa gli traversi
Ricordato in sommario tutto questo, va
ora trattato il problema dell'impiego della forza e della violenza nella lotta
sociale, quando a impugnare tali mezzi di azione è la classe rivoluzionaria
dell'epoca di oggi, il moderno proletariato.
• • •
Il metodo della lotta di classe è stato
nel corso di circa un secolo accettato a parole da tanti e così diversi
movimenti e scuole, che le più opposte interpretazioni si sono scontrate in
violente polemiche, riflesso delle vicende e degli svolti della storia del
capitalismo e degli antagonismi da esso suscitati.
La polemica si chiarificò in modo
classico a cavallo della prima guerra mondiale e della rivoluzione russa:
Lenin, Trotzky, i gruppi di sinistra che confluirono nella Internazionale di
Mosca sistemarono in modo che deve ritenersi definitivo per il campo teoretico
e programmatico le questioni sulla forza, la violenza, la conquista del potere,
lo stato e la dittatura.
Dal lato opposto si ponevano le innumeri
deformazioni dell'opportunismo socialdemocratico, di cui non occorre ripetere
la confutazione ma è utile solo ricordare qualche punto che vale a chiarire
nostri concetti distintivi. D'altra parte molte di quelle false posizioni
battute allora in breccia e che sembrarono disperse per sempre ricompaiono
sotto forme quasi identiche nella odierna situazione del movimento operaio.
Pretese il revisionismo di mostrare come
parte caduca del sistema marxista tutta la previsione di un urto rivoluzionario
tra la classe operaia e le difese del potere borghese, e, falsificando e
sfruttando i testi, una prefazione e una lettera famose di Engels, assunse che,
da una parte, dati i progressi della tecnica militare, andava esclusa ogni
prospettiva di insurrezione vittoriosa armata, dall'altra che il progredire
della organizzazione dei sindacati operai e dei partiti politici parlamentari
consentiva di prevedere un sicuro prossimo arrivo al potere con mezzi legali e
incruenti.
Si volle diffondere nelle file della
classe operaia la convinzione che non si poteva abbattere con la forza
il potere della classe capitalistica, e che d'altra parte si poteva
attuare il socialismo dopo aver conquistato, con la maggioranza degli istituti
rappresentativi, gli organi esecutivi dello stato.
Si accusarono i marxisti di sinistra di
un culto della violenza che la elevava da mezzo a fine e la invocava quasi
sadicamente anche laddove si poteva risparmiarla e raggiungere lo stesso
risultato per via pacifica.
Ma dinanzi alla eloquenza degli sviluppi
storici tale polemica svelò presto il suo contenuto, che era quello di una
mistica non tanto della antiviolenza quanto proprio dei principi
apologetici dell'ordine borghese.
Avendo la rivoluzione armata trionfato a
Leningrado delle resistenze così dell'ordinamento zarista che della classe
borghese russa, l'argomento che colle armi non si poteva conquistare il
potere si trasformò nell'argomento che non si doveva, anche potendo. Ciò
si innestava alla predicazione idiota di un generico umanitarismo e pacifismo
sociale, il quale ripudiava si la violenza usata per la vittoria della
rivoluzione operaia, ma non rinnegava la violenza usata dalla borghesia per le
sue rivoluzioni storiche, nemmeno nelle estreme manifestazioni terroristiche.
Non solo, ma in tutte le decisioni controverse, in situazioni storiche decisive
per il movimento socialista, la destra, nel contrastare le proposte di azione
diretta, ammise che per altri obiettivi avrebbe condiviso il ricorso all'insurrezione.
Ad esempio i socialisti riformisti italiani nel maggio 1915 si opposero alla
proposta di sciopero generale al momento della mobilitazione con argomenti
ideologici e politici, oltre che di valutazione tattica delle forze in gioco,
ma ammisero che nel caso di un intervento in guerra a fianco dell'Austria e
della Germania avrebbero chiamato il popolo all'insurrezione...
Così pure i teorizzatori della
«utilizzazione» delle vie legali e democratiche sono pronti ad ammettere che
invece la violenza popolare è legittima e necessaria quando dall'alto si attui
il tentativo di abolire le garanzie costituzionali. Come poi si spieghi che in
tal caso il progresso dei mezzi tecnici militari in mano allo stato non è più
un insormontabile ostacolo, come si possa prevedere che nel caso di un
raggiungimento pacifico della maggioranza, la classe al potere non faccia
ricorso a quei mezzi per conservarlo, e come possa il proletariato usare
vittoriosamente la violenza deprecata e condannata come mezzo di classe, in
tutte queste situazioni i socialdemocratici non sanno dirlo, poiché dovrebbero
confessare di essere puramente e semplicemente i manutengoli della
conservazione borghese.
Un sistema come il loro di parole
d'ordine tattiche si può infatti conciliare solo con una apologetica nettamente
antimarxistica della civiltà borghese, qual è difatti al fondo di tutta la
politica dei partiti sorti sul troncone deforme dell'antifascismo.
Tale tesi dice che l'ultimo ricorso
storico alla violenza e alle forme della guerra civile è stato quello appunto
che ha permesso all'ordine borghese di sorgere sulle rovine dei vecchi regimi
feudali e dispotici. Con la conquista delle libertà politiche si apre un'era di
lotte civili e pacifiche, che consentiranno senza ulteriori urti cruenti tutte
le altre conquiste, e così quella della eguaglianza economica e sociale.
Il movimento storico del moderno
proletariato e il socialismo non si presentano più, in questa ignobile
falsificazione, come la battaglia più radicale della storia, come la eversione
fin dalle fondamenta di tutto un mondo, nella sua impalcatura economica e nei
suoi ordinamenti legali e politici, come nelle sue ideologie ancora pregne di
tutte le menzogne tramandate dalle forme di oppressione che fin qui si sono
avvicendate e che tuttora ammorbano la stessa aria che respiriamo.
Il socialismo si riduce a una sciocca e
esitante integrazione di pretese conquiste giuridiche e costituzionali, di cui
la forma capitalistica avrebbe arricchita e illuminata la società, con vaghi
postulati sociali innestabili e trapiantabili sul tronco del sistema borghese.
La formidabile prospettiva antagonistica
di Marx che misurava nel sottosuolo sociale le pressioni irresistibili e
crescenti, che dovranno far saltare l'involucro delle forme borghesi di
produzione come i cataclismi geologici infrangono la crosta del pianeta, è
sostituita con gli spregevoli inganni di un Roosevelt, che infila nel bolso
elenco delle libertà borghesi quelle dal timore e dal bisogno, o
di un Pacelli che, ribenedetto nella moderna forma capitalistica l'eterno
principio della proprietà, mostra di piangere per l'abisso che separa
l'indigenza delle moltitudini dalle mostruose accumulazioni della ricchezza.
Nella ricostruzione leninista la definizione
dello stato è rimessa a posto come quella di una macchina che una classe
sociale adopera per opprimerne altre, e tale definizione vige in pieno e
soprattutto per il moderno stato borghese, democratico e parlamentare. Resta
pure chiarito, a coronamento della storica polemica, che la forza proletaria di
classe non può penetrare in questa macchina e adoperarla per i propri sviluppi,
ma deve, più che conquistarla, infrangerla e disperderla in frantumi.
La lotta proletaria non è lotta
nell'interno dello stato e dei suoi organismi, ma lotta dall'esterno dello
stato contro di esso e contro tutte le sue manifestazioni e forme.
La lotta proletaria non si prefigge di
prendere o di conquistare lo stato, come una piazzaforte in cui voglia
sistemarsi a presidio l'esercito vincitore, ma si propone di distruggerlo
radendo al suolo le difese e le fortificazioni superate.
Tuttavia dopo questa distruzione una
forma di stato politico si rende necessaria, ed è la forma nuova in cui si
organizza il potere di classe del proletariato, per la necessità di dirigere
l'impiego di un'organica violenza con cui si estirpano i privilegi del capitale
e si consente l'organizzazione delle svincolate forze produttive nelle nuove
forme comunistiche. non private, non mercantili.
Si parla perciò esattamente di conquista
del potere, intendendo conquista non legale e pacifica, ma violenta,
armata, rivoluzionaria. Si parla correttamente di passaggio del potere dalle
mani della borghesia a quelle del proletariato, appunto perché nella nostra
dottrina chiamiamo potere non solo la statica dell'autorità e della
legge posata sulle pesanti tradizioni del passato, ma anche la dinamica della
forza e della violenza spinta verso l'avvenire e travolgente le dighe e gli
ostacoli delle istituzioni. Non esatto sarebbe parlare di conquista dello
stato o di passaggio dello stato dalla gestione di una classe a
quella di un'altra, poiché appunto lo stato di una classe deve perire ed essere
infranto, come condizione della vittoria della classe prima dominata. Trasgredire
questo punto essenziale del marxismo, o fare su esso la minima concessione,
come quella che il trapasso del potere possa inquadrarsi in una vicenda
parlamentare sia pure fiancheggiata da azioni e combattimenti di piazza e da
vicende di guerra fra gli stati, conduce direttamente all'estremo
conservatorismo, poiché significa concedere che l'impalcatura dello stato sia
una forma aperta a contenuti sociali opposti, e sia quindi superiore alle
opposte classi e al loro urto storico, il che si risolve nel timore
reverenziale della legalità e nella volgare apologetica dell'ordine costituito.
Non si tratta soltanto di un errore
scientifico di valutazione, ma di un reale processo storico degenerativo che si
è svolto sotto i nostri occhi, e che ha condotto i partiti ex-comunisti giù per
la china, che volgendo le terga alle tesi di Lenin arriva alla coalizione coi
traditori social-democratici, al «governo operaio», al governo democratico
ossia in collaborazione diretta con la borghesia e al servizio di questa.
Con la tesi chiarissima della distruzione
dello stato, Lenin ristabiliva quella della formazione dello stato
proletario non gradita agli anarchici, i quali, pure avendo il merito di
propugnare la prima, perseguivano l'illusione che subito dopo infranto il
potere borghese la società potesse fare a meno di ogni forma di potere
organizzato e quindi di stato politico, ossia di un sistema di violenza
sociale. Non potendo essere istantanea la trasformazione dell'economia da
privata a socialistica non può essere istantanea la soppressione della classe
non lavoratrice e non si può attuarla con la fisica soppressione dei suoi
membri. Per il tempo non breve in cui le forme economiche capitalistiche
persistono, subendo una incessante riduzione, lo stato rivoluzionario
organizzato deve funzionare, il che significa, come Lenin disse senza
ipocrisie, tenere soldati, forze di polizia e carceri.
Riducendosi progressivamente il campo
dell'economia ancora organizzata in forme private, si riduce di pari passo il
campo in cui è necessario applicare la coazione politica, e lo stato tende
alla sua progressiva sparizione.
I punti qui ricordati in forma
schematica bastano a mostrare come non tanto una meravigliosa campagna polemica
che ridicolizzò e stritolò i contraddittori, ma soprattutto la più grandiosa
vicenda che abbia fin qui presentato la storia della lotta di classe, fecero
risplendere in assoluta chiarezza le classiche tesi di Marx e di Engels, del «Manifesto dei Comunisti», delle conclusioni
che si traevano dalla sconfitta della Comune, quali la conquista del potere
politico, la dittatura del proletariato, l'intervento dispotico nei
rapporti borghesi di produzione, il finale sgonfiamento dello stato. Il
buon diritto a parlare di conferme storiche parallele alla geniale impostazione
teorica sembra cessare quando si giunge a quest'ultima fase, in quanto non
abbiamo ancora assistito - in Russia o altrove - al processo di sgonfiamento,
di svuotamento, di dissolvimento (Auflösung in Engels) dello stato. La
questione è importante e difficile, dato che per la sana dialettica nulla può
essere sicuramente dimostrato dal succedersi più o meno brillante di parole
dette o scritte, ma le conclusioni si fondano soltanto sui fatti.
Gli stati borghesi, sotto tutti i climi
meteorici e ideologici, si vanno spaventosamente gonfiando davanti ai nostri
occhi, e l'unico stato che una possente propaganda presenta come operaio a sua
volta dilata la sua organizzazione e la sua funzione nel campo burocratico,
giudiziario, poliziesco, militare, oltre ogni limite.
Non stupisce dunque che un diffuso
scetticismo accolga la previsione del contrarsi e dell'eliminarsi dello stato
dopo l'espletamento della sua parte decisiva nella lotta delle classi.
L'opinione volgare sembra dirci: «Avrete
un bell'aspettare voi teorizzatori e realizzatori di dittature anche rosse;
l'organismo statale, come un tumore nel corpo della società, si guarderà bene
dal regredire e ne invaderà tutti i tessuti e tutti i meandri fino a
soffocarla». Da questa corrente valutazione traggon coraggio tutti gli
ideologismi individualistici, liberali, anarchici, ed infine i vecchi e nuovi
deformi ibridismi tra il metodo classista e il liberale, che ci propinano
socialismi basati niente meno che sulla personalità e la pienezza del
suo manifestarsi.
È molto notevole che anche gli scarsi
gruppi che nel campo comunista hanno reagito alla degenerazione opportunista
dei partiti della disciolta Internazionale di Mosca tendano a mostrare delle
esitazioni su questo punto; preoccupati di lottare contro la soffocante
centralizzazione della burocrazia staliniana, sono condotti a revocare in
dubbio le posizioni di principio del marxismo ristabilite da Lenin e mostrano
di credere che questi - e con lui tutti i comunisti rivoluzionati nel glorioso
periodo 1917-1920 - abbia errato in senso statolatra.
Vada fortemente chiarito che la corrente
della sinistra marxista italiana, a cui si collega questa rivista, non ha in
materia il minimo tentennamento o pentimento, respinge ogni revisione del
principio fondamentale di Marx e di Lenin secondo cui la rivoluzione, come è
per eccellenza un processo violento, così è sommamente un fatto autoritario
totalitario e centralizzatore.
La condanna dell'indirizzo stalinista
non si fonda sull'accusa astratta, scolastica e costituzionalistica di aver
peccato abusando di burocratismo, di dirigismo e di dispotica autorità, ma su
ben altre valutazioni dello sviluppo economico sociale politico in Russia e nel
mondo, di cui l'enfiamento mostruoso della macchina statale non è la causa
peccaminosa, ma la inevitabile conseguenza.
Il dubbio sull'accettazione e l'aperta
difesa della dittatura, oltre che risalire a vaghi e stupidi moralismi sul
preteso diritto dell'individuo o dell'aggruppamento a non essere compresso o
piegato da una forza più vasta, risale alla distinzione - senza dubbio
importantissima - tra il concetto di dittatura di classe contro classe e quello
dei rapporti di organizzazione e di potere con cui lo stato rivoluzionario si
costruisce e si configura entro la vincitrice classe operaia. È questo
il punto d'arrivo della presente trattazione che, rimessi nei loro termini i
dati fondamentali, non pretenderà certo di avere esaurito queste questioni che
solo la storia esaurisce (come noi assumiamo abbia esaurita quella della
necessità della violenza per la conquista del potere) mentre il compito della
scuola teorica e della milizia di partito è l'evitare che se ne cerchi lo
sbocco usando, senza accorgersene, argomenti dettati e influenzati dalle
ideologie nemiche e quindi dagli opposti interessi di classe.
Dittatura è dunque il secondo e
dialettico aspetto della forza rivoluzionaria. Questa, nella prima fase della
conquista del potere, agisce dal basso e fa confluire mille sforzi nel
tentativo di spezzare la forma statale da tempo costituita. Questa stessa forza
di classe, dopo il successo di tale tentativo, seguita ad agire, in senso
capovolto, dall'alto, nell'esercizio del potere affidato a un organismo statale
ricostituito nel tutto e nelle parti e ancora più robusto, deciso e, se
occorre, spietato e terroristico di quello sconfitto.
Le strida contro la rivendicazione della
dittatura, oggi dissimulata ipocrita-mente dagli stessi rappresentanti del
regime di ferro moscovita, e le grida di allarme contro la pretesa
impossibilità di frenare la corsa alla libidine di potere, e quindi di
privilegio materiale, da parte del personale burocratico cristallizzato in
nuova classe o casta dominante, ben si conciliano con la posizione inferiore e
metafisica di chi tratta della società e dello stato come enti astratti, e non
sa trovare le chiavi dei problemi nell'indagine sui fatti della produzione e
nei rivolgimenti di ogni rapporto che scaturiscono dagli urti delle classi.
Banale è quindi la confusione tra il
concetto di dittatura invocato da noi marxisti e quello volgare di tirannide,
dispotismo e autocrazia.
Si confonde così la dittatura del
proletariato col potere personale e si grida il crucifige in base alle stesse
stupidità contro Lenin come contro Hitler, Mussolini o Stalin.
Va ricordato che l'analisi marxista
disconosce in pieno l'affermazione che le macchine statali agiscano sotto
l'azione della volontà di questi Duci contemporanei. Essi sono dei pezzi
simbolicamente notevoli, mossi da forze cui non possono sottrarsi sullo
scacchiere della storia.
Tante volte abbiamo stabilito, d'altra
parte, che gli stessi ideologi borghesi non hanno il diritto di scandalizzarsi
di un Franco o di un Tito o dei metodi energici di quegli stati che li
presentano come capi, quando non rifuggono dalla apologia della dittatura e del
terrore cui la borghesia è ricorsa appunto nella fase successiva alla conquista
del potere. Così nessuno storico ben pensante classifica il dittatore di Napoli
nel 1860, Giuseppe Garibaldi, come un criminale politico, ma lo esalta come
puro campione dell'umanità.
La dittatura del proletariato non si
estrinseca dunque nel potere di un uomo, sia pure di eccelse qualità personali.
Essa ha allora per soggetto operante un
partito politico, il quale agisce in nome e per conto della classe operaia? A
tale interrogativo, oggi come trenta anni addietro, la risposta della nostra
corrente è incondizionatamente: sì.
Poiché è innegabile che i partiti che
invocavano di rappresentare la classe proletaria hanno subito crisi profonde e
si sono ripetutamente spezzati e sdoppiati, segue alla nostra recisa
affermativa la domanda se e con quale criterio si debba stabilire quale partito
abbia in effetti tale rivoluzionaria prerogativa, e si porta quindi la
questione sull'esame del collegamento che passa tra la base ampia della classe
e l'organismo più ristretto e ben definito del partito.
Nel rispondere ai quesiti su questo
punto non va perduto di vista il carattere distintivo della dittatura che, come
sempre nel nostro metodo, prima di svelare nella concretezza storica i suoi
aspetti positivi, si lascia definire dal suo aspetto negativo.
È dittatura quel regime in cui la classe
sconfitta pure esistendo fisicamente e costituendo in linea statistica una
parte notevole dell'agglomerato sociale viene tenuta con la forza fuori
dallo stato. E viene, altresì, tenuta in condizioni di non poter tentare la
riconquista del potere, essendole vietata l'associazione, la propaganda, la
stampa.
Chi sia a tenerla in questo deciso stato
di soggezione non è necessario definirlo in partenza, lo insegnerà
l'effettuarsi stesso della lotta storica. Purché la classe che combattiamo sia
ridotta in questo stato di minorità sociale, subisca questa morte civile in
attesa di quella statistica, noi ammetteremo per un momento che il soggetto
operante possa essere o tutta la maggioranza sociale vincitrice (ipotesi
assoluta irrealizzabile), o una parte di essa, o un solido gruppo di
avanguardia (sia pure statisticamente minoritario), o infine in una breve crisi
perfino un uomo solo (altra ipotesi estrema sul mezzo, che è stata prossima ad
attuarsi in un solo esempio storico, quello di Lenin che nell'aprile 1917, solo
contro tutto il comitato centrale e i vecchi bolscevichi, scopre nel divenire
degli eventi e incide nelle sue tesi le nuove linee della storia del partito e
della rivoluzione, come nel novembre fa disperdere dai fucilieri rossi
l'assemblea costituente).
Non essendo il metodo marxista né
rivelazione, né profezia, né scolastica, esso conquista anzitutto la cognizione
del senso in cui agiscono le forze storiche stabilendo i loro rapporti e i loro
scontri. In tempi successivi, accompagnandosi l'indagine e la lotta, esso
determina i caratteri delle manifestazioni e la configurazione dei mezzi.
La Comune di Parigi confermò che la
forza proletaria doveva spezzare il vecchio stato e non penetrarlo, e che il
mezzo doveva essere non la legalità ma l'insurrezione.
La stessa sconfitta in questo scontro di
classe e la vittoria di ottobre a Leningrado mostrarono che occorre organare
una nuova forma di stato armato il cui «segreto» sta in questo: che esso nega
sopravvivenza politica ai componenti la classe sconfitta e a tutti i multiformi
suoi partiti.
Carpito alla storia (consentiamoci per
facilità espositiva di civettare con questa espressione) questo decisivo
segreto, non abbiamo con ciò ancora chiarita e studiata tutta la fisiologia e la
dinamica del nuovo organismo generatosi, e purtroppo ci resta ancora aperto un
campo difficilissimo: quello della sua patologia. Anzitutto il carattere
negativo determinante, ossia l'esclusione dall'organo statale (abbia esso o
meno impalcature multiple rappresentative, esecutive, giudiziarie,
burocratiche) della classe detronizzata, distingue radicalmente il nostro stato
da quello borghese che pretendeva accogliere nei suoi organamenti tutti gli
strati sociali.
La novità non può però sembrare assurda
alla sopraffatta borghesia. Quando essa riuscì a far saltare il vecchio stato
fondato sui due ordini della nobiltà e del clero, capi che sbagliava a chiedere
soltanto di entrare come terzo ordine nell'organismo statale (il termine
francese di terzo stato può indurre ad equivoco formale con lo Stato
unico; lo sostituiamo con ordine). Nella Convenzione e nel Terrore essa
cacciò gli «ex» fuori dello stato, e le fu facile chiudere storicamente la fase
dittatoriale in quanto poté rapidamente distruggere i privilegi dei due ordini
fondati su prerogative giuridiche più che sulla organizzazione produttiva,
riducendo rapidamente anche il prete e il nobile a semplice indistinto
cittadino.
Procederemo ora nella successiva parte
del presente studio, stabilito il cardine distintivo che definisce la forma
storica della dittatura del proletariato, ad esaminare i rapporti tra i vari
organismi e istituti in cui questa si esplica: partito di classe, consigli
operai, sindacati, consigli di azienda.
Discuteremo in altri termini a conclusione
il problema della cosiddetta democrazia proletaria (espressione ospitata in
testi della Terza Internazionale, ma che sarebbe bene liquidare) che dovrebbe
istituirsi dopo che la dittatura ha storicamente sepolto la democrazia
borghese.
V. Degenerazione russa e
dittatura
Il quadro dell'arduo problema della
degenerazione del potere proletario ha questi grandi tratti. In un vasto paese
la classe operaia ha conquistato il potere sulla linea storica dell'insurrezione
armata e dell'annientamento di ogni influenza delle classi sconfitte sotto il
peso della dittatura di classe. Ma negli altri paesi del mondo la classe
operaia o non ha avuto la forza di iniziare l'attacco rivoluzionario, o è stata
schiacciata nel suo tentativo. In questi paesi il potere resta alla borghesia,
la produzione e lo scambio procedono e seguiteranno a procedere nel quadro
capitalistico, che domina tutti i rapporti del mercato mondiale.
Nel paese della rivoluzione la dittatura
tiene ben fermo sul piano politico e militare contro ogni tentativo di
contrattacco e liquida le guerre civili in pochi e vittoriosi anni, né il
capitalismo estero impianta un'azione generale per andarla a debellare.
Si verifica però un processo di
degenerazione interna del nuovo apparato politico e amministrativo, e si vede
formarsi una cerchia privilegiata che monopo-lizza i benefici e le cariche
della gerarchia burocratica, pur seguitando a conclamare di rappresentare e
difendere gli interessi delle grandi masse lavoratrici.
Nei paesi esteri il movimento operaio
rivoluzionario strettamente collegato a quella stessa gerarchia politica, non
solo non realizza altri vittoriosi abbattimenti degli stati borghesi, ma va
falsando e spegnendo in altri obiettivi non rivoluzionari il senso della
propria azione.
Sorge dinanzi a questo tremendo problema
della storia della lotta di classe il grave interrogativo: come si poteva o si
potrebbe impedire questa doppia rovina? Il quesito è in verità mal posto;
secondo il sano metodo deterministico si tratta invece di individuare i veri
caratteri e le leggi proprie di questo processo degenerativo, per stabilire
quando e in che cosa si potranno riconoscere le condizioni che permettano di
attendere e di seguire un processo rivoluzionario preservato da quella
patologica reversione.
Non stiamo qui ribattendo la posizione
di coloro che contestano l'esistenza del fatto degenerativo e che sostengono
esservi in Russia il vero e pieno potere rivoluzionario operaio, l'evoluzione
reale delle forme economiche verso il comunismo, ed un coordinamento con i
partiti esteri del proletariato efficiente per condurre all'abbattimento del
capitalismo mondiale.
Neppure svolgiamo qui lo studio del lato
economico-sociale del problema, che va impostato su una attenta analisi del
meccanismo russo di produzione e distribuzione e dei suoi rapporti reali con le
esteriori economie capitalistiche.
Qui, al termine dell'esposizione storica
sui problemi della violenza e del potere, rispondiamo a quelle obiezioni
critiche secondo le quali la degenerazione in senso burocratico oppressivo è
una conseguenza diretta dell'avere trasgredito e violato i canoni e i criteri
della democrazia elettiva.
L'obiezione ha due aspetti, ma il meno
radicale è il più insidioso. Il primo aspetto è quello prettamente borghese che
si collega direttamente a tutta la campagna mondiale di diffamazione della
rivoluzione russa, condotta fino dagli anni della lotta da tutti i liberali, i
democratici e i social-democratici del mondo, terrorizzati tanto dall'impiego,
che dalla magnifica, coraggiosa proclamazione teorica del metodo della
dittatura rivoluzionaria.
Dopo quanto abbiamo ricordato in questi
scritti consideriamo superato tale aspetto della lamentazione democratica generica,
sebbene la lotta contro di esso resti sempre di primaria importanza, oggi che
appunto la rivendicazione conformista di quella che Lenin chiamò «la democrazia
in generale» - e che nei testi fondamentali comunisti rappresenta l'opposto
dialettico, la negazione antipolare della posizione rivoluzionaria - viene
sbandierata sconciamente proprio da quei partiti che si proclamano collegati al
regime vigente in Russia. Questo regime tuttavia, pur facendo all'interno
pericolose colpevoli concessioni nel diritto formale al meccanismo democratico
borghese, non solo resta ma diviene sempre più un regime strettamente
totalitario e di polizia.
Non si insisterà quindi mai abbastanza
sulla critica della democrazia in tutte le forme storiche finora note; essa è
sempre stata un modo interno di organizzarsi di una vecchia o nuova classe di
oppressori, una vecchia o nuova tecnica contingente dei rapporti interni tra
elementi e gruppi sfruttatori; e, nelle specifiche rivoluzioni borghesi, la
vera atmosfera vitale necessaria al prorompere rigoglioso del capitalismo.
Le vecchie democrazie basate su principi
elettivi, assemblee, parlamenti o concili, sotto la menzognera proclamazione di
voler attuare il bene di tutti e la universalità di conquiste spirituali o
materiali, servivano in effetti ad imporre e conservare lo sfruttamento sulle
folle di fanatici, di schiavi, di iloti, di popoli soggiogati perché meno
progrediti o bellicosi, di tutta una massa assente dal tempio, dal senato,
dalla polis, dai comizi.
Nelle molteplici banali teorie a sfondo
egualitario noi leggiamo la verità obiettiva del compromesso, dell'accordo e
della congiura tra i componenti della minoranza privilegiata ai danni delle
classi inferiori. Non affatto diversa è la nostra valutazione della moderna forma
democratica basata sulle sacre carte delle rivoluzioni britannica, americana e
francese. Essa è una tecnica delle migliori condizioni politiche perché il
capitalismo possa opprimere e sfruttare i lavoratori, sostituendo la vecchia
rete degli oppressori feudali da cui esso stesso era soffocato, ma sempre allo
scopo di sfruttare, in modo nuovo e diverso, ma non minore né attenuato.
È poi fondamentale a tal riguardo
l'interpretazione della presente fase totalitaria dell'epoca borghese, in cui
le forme parlamentari, assolto quel loro compito, tendono a sparire, e
l'atmosfera del moderno capitalismo diviene antiliberale e antidemocratica. Da
questa corretta valutazione nasce la conseguenza tattica che ogni
rivendicazione per i ritorni all'iniziale democrazia borghese è anticlassista e
reazionaria, e perfino «antiprogressista».
• • •
Preme ritornare al secondo aspetto della
obiezione a sfondo democratico, la quale non si ispira più ai dogmi di una democrazia
interclassista e superclassista, ma in sostanza dice questo: sta bene attuare
la dittatura e superare ogni scrupolo nel reprimere i diritti della vinta
minoranza borghese; ma una volta messi i borghesi fuori legge si è avuta la degenerazione
dello stato perché «entro» la vincitrice classe proletaria si è violata la
regola rappresentativa. Se si fosse attuato e rispettato un pieno sistema
elettivo maggioritario degli organi proletari di base - consigli, sindacati,
partito politico - lasciando ogni decisione all'esito numerico delle
consultazioni «veramente libere», si sarebbe automaticamente tenuta la vera via
rivoluzionaria e si sarebbero scongiurati ogni degenerazione e ogni pericolo di
abusivi predomini sopraffattoni della diffamatissima «cricca staliniana».
Alla base di questo modo di vedere così
diffuso sta l'opinione che ciascun individuo, per il solo fatto di appartenere
a una classe economica, ossia di trovarsi in determinati rapporti comuni a
tanti altri agli effetti della produzione, sia parimenti predisposto ad
acquistare una chiara «coscienza» di classe, ossia acquisti un insieme di
opinioni e di intendimenti che riflettono gli interessi, la via storica e
l'avvenire della sua classe. Questa è maniera errata d'intendere il
determinismo marxista, perché la formazione della coscienza è fatto bensì
collegato alle situazioni economiche di base, ma che le segue a grande distanza
di tempo ed ha un campo d'azione enormemente più ristretto di quelle. Ad
esempio, i borghesi, commercianti, banchieri o piccoli fabbricanti esistettero
per molti secoli ed ebbero funzioni economiche fondamentali prima che si
sviluppasse la coscienza storica della classe borghese, ma ebbero psicologia di
servitori e complici dei signori feudali, mentre lentamente nel loro seno si
formava una tendenza ed una ideologia rivoluzionarie e minoranze audaci si
andavano organizzando per tentare la conquista del potere.
Avvenuta questa nelle grandi rivoluzioni
democratiche, se anche alcuni aristocratici avevano lottato per la rivoluzione,
molti borghesi conservarono non solo un modo di pensare ma anche una linea di
azione contraria agli interessi generali del loro ceto e militarono e lottarono
coi partiti controrivoluzionari.
Similmente, l'opinione e la coscienza
dell'operaio si formano bensì sotto la influenza delle sue condizioni di lavoro
e di vita materiale, ma anche nell'ambiente di tutta la tradizionale ideologia
conservatrice di cui lo circonda il mondo capitalistico.
Le influenze in questo senso vanno
diventando, nella fase attuale, sempre più potenti e non v'è bisogno di
ricordare di quali risorse disponga non solo la pianificazione della propaganda
con le tecniche moderne, ma lo stesso intervento centralizzato nella vita
economica con l'adozione delle infinite misure riformistiche e di economia
controllata, che tentano di solleticare la soddisfazione di interessi secondari
dei lavoratori e molte volte realizzano veramente influenze concrete sul loro
trattamento.
I vecchi regimi aristocratici e feudali,
mentre si appagavano, per la massa bruta e incolta, dell'organizzazione
chiesastica come pianificatrice di ideologie servili, agirono soprattutto
mediante il monopolio della scuola e della cultura sulla nascente borghesia, e
questa dovette sostenere una grande lotta ideologica con complicate
alternative, che la letteratura presenta come lotta per la libertà del
pensiero, mentre si trattava della soprastruttura ad un aspro conflitto tra due
forze organizzate per sopraffarsi a vicenda.
Oggi il capitalismo mondiale, oltre la
chiesa e la scuola, dispone di mille altre forme di manipolazione ideologica e
di formazione della cosiddetta coscienza, ed ha qualitativamente e
quantitativamente superato i vecchi regimi nella fabbricazione degli inganni
non solo nel senso di diffondere le dottrine e le mistiche più assurde, ma
anche in quello pregiudiziale di informare la massa degli uomini in maniera
totalmente falsificata sugli innumerevoli accadimenti della complicata vita
moderna.
Se malgrado questo formidabile
armamentario della classe a noi nemica abbiamo sempre ritenuto che si sarebbe
formata nel seno della classe oppressa una ideologia e una dottrina
antagonistiche, acquistanti sempre maggior chiarezza e diffusione man mano che
lo stesso svolgimento economico acutizzava il conflitto delle forze produttive,
e parallelamente al diffondersi delle aspre lotte fra gli interessi di classe;
tale prospettiva non si fondava sull'argomento che, essendo i proletari più
numerosi dei borghesi, il cumulo delle loro opinioni e concezioni individuali
avrebbe prevalso col suo peso su quelle degli avversari.
Quella chiarezza e quella coscienza noi
l'abbiamo sempre veduta realizzarsi non in un aggregato amorfo di persone
isolate, ma in organizzazioni sorgenti dal seno della massa indifferenziata, in
inquadramenti e schieramenti di minoranze decise che, collegate tra loro da
paese a paese e nella continuità storica generale del movimento, assumevano la
funzione direttiva della lotta delle masse, mentre queste nella loro
maggioranza vi partecipavano per la determinazione delle spinte e dei moventi
economici assai prima di aver raggiunta la medesima forza e chiarezza di
opinioni cristallizzate nel partito dirigente.
Ecco perché ogni consultazione, anche
quando fosse possibile, della generalità della massa operaia, fatta col bruto
criterio numerico, non è da escludersi che possa dare un risultato
controrivoluzionario anche in situazioni utili per una avanzata e una lotta
guidate dalla minoranza di avanguardia. Né una lotta generale politica che si
chiuda con la vittoriosa conquista del potere è sufficiente in modo immediato
per eliminare tutte quelle complicate influenze tradizionali delle ideologie
borghesi. Queste non solo sopravvivono in tutta la struttura sociale dello
stesso paese della vittoria rivoluzionaria, ma seguitano ad agire da oltre
frontiera con l'imponente spiegamento di tutti i moderni mezzi cui abbiamo
accennato.
Lo stesso grande vantaggio di spezzare
con la macchina statale tutte le impalcature di pianificazione ideologica del
passato, come la chiesa e la scuola e innumeri associazioni, e di prendere il
controllo centrale di tutti i grandi mezzi di diffusione delle opinioni:
stampa, radio, teatro ecc, non basta, se non si completa con la condizione
economico-sociale di poter procedere rapidamente e con successi positivi nello
sradicamento delle forme borghesi di produzione. Lenin sapeva benissimo che la
necessità di dover lasciar prolungare e in certo senso divenir più rigogliosa
la gestione familiare della piccola azienda contadina significava lasciare un
campo di successo alle influenze della psicologia egoistica e mercantile di
tipo borghese ed alla propaganda disfattista del pope, al gioco insomma di
infinite superstizioni controrivoluzionarie, ma lo stato dei rapporti delle
forze non lasciava altra scelta, e solo conservando forza e saldezza al potere
armato del proletariato industriale si poteva conciliare l'utilizzazione dello
slancio rivoluzionario degli alleati contadini contro i vincoli del regime
terriero feudale, con la difesa dai pericoli di una possibile jacquerie di
contadiname semiarricchito, come avvenne nelle guerre civili con Denikin e
Kolciak.
La falsa posizione di quelli che
vogliono applicare la democrazia aritmetica nel seno della massa lavoratrice o
di suoi dati organismi risale quindi ad una falsa impostazione dei termini del
determinismo marxista.
Già distinguemmo in altro di questi
scritti fra la tesi errata che in ciascuna epoca storica contrappone a classi
con opposti interessi gruppi che confessano opposte teorie, e la tesi esatta
che in ciascuna epoca il sistema dottrinale costruito sugli interessi della
classe dominante tende vantaggiosamente ad essere professato dalla classe
dominata. Chi è servo nel corpo è servo nello spirito, ed il vecchio inganno
borghese è appunto di voler cominciare dalla liberazione degli spiriti, che non
conduce a nulla e non costa nulla ai beneficiati dal privilegio sociale, mentre
è dalla liberazione dei corpi che bisogna cominciare.
Così è posizione errata, a proposito
dell'abusato problema della coscienza, quella che stabilisce questa seriazione
del determinismo: cause economiche influenti, coscienza di classe, azione di
classe. La seriazione è invece l'altra: cause economiche determinanti, azione
di classe, coscienza di classe. La coscienza viene alla fine e, in maniera
generale, dopo la vittoria decisiva. La necessità economica affascia la
pressione e lo sforzo di tutti quelli che sono oppressi e soffocati dalle forme
cristallizzate di un dato sistema produttivo; essi reagiscono, si dibattono si avventano
contro quei limiti, nel corso di questo scontro e di questa battaglia ne vanno
sempre più comprendendo le condizioni generali le leggi e i principi, e si
forma una chiara visione del programma della classe lottante.
Da decenni e decenni ci si risponde che
vogliamo una rivoluzione di incoscienti.
Potremmo rispondere che, purché la
rivoluzione travolga l'ammasso di infamie costituito dal regime borghese e
purché si spezzi il cerchio formidabile delle sue istituzioni, che premono e
strozzano la vita delle masse produttive, a noi non dispiace affatto che i
colpi siano vibrati a fondo anche da chi non è ancora cosciente dello sbocco
della lotta.
Ma invece noi marxisti di sinistra abbiamo
sempre nettamente e vigorosamente rivendicato l'importanza della parte
dottrinale del movimento ed anzi abbiamo costantemente denunciato l'assenza di
principi e il tradimento di essi da parte degli opportunisti della destra.
Abbiamo sempre ricordato la validità della impostazione marxista che considera
il proletariato addirittura come l'erede della classica filosofia moderna.
Questa enunciazione voleva dire che, parallelamente alla lotta di borghesi
usurai colonizzatori o mercanti, si erano avuti nella storia l'assalto del
metodo critico alle ideologie dell'autorità per diritto divino e del dogma, ed
una rivoluzione compiuta nella filosofia naturale in apparenza prima che nella
società. Ciò avveniva perché tra le forme da infrangere affinché le forze
produttive capitalistiche si affermassero nel prepotere del loro svolgimento
non ultima era l'impalcatura delle confessioni scolastiche e teocratiche del
medioevo. Ma divenuta conservatrice dopo la sua vittoria politica e sociale, la
borghesia non aveva alcun interesse a che l'arma della critica si affondasse
come aveva fatto nelle menzogne dei sistemi cosmogonici cristiani, anche nel
problema ben altrimenti pressante ed umano della struttura sociale. Tale
secondo compito nel procedere della coscienza teoretica della società veniva
assunto da una nuova classe, spinta dal suo interesse a denudare le menzogne
del sistema della civiltà borghese, e tale nuova classe, nella potenza della
visione dialettica di Marx, era quella dei «vili meccanici» tenuti dal pregiudizio
medioevale fuori dalla cultura, di quelli che la rivoluzione liberale aveva
finto di elevare ad una uguaglianza giuridica, era la classe dei lavoratori
manuali della grande industria, incolti e quasi ignoranti.
La chiave del nostro sistema sta appunto
nel fatto che la sede di tale chiarificazione non la collochiamo nel cerchio
angusto della persona individua, e che sappiamo benissimo che nel caso generale
gli elementi della massa lanciata in lotta non potranno possedere nel loro
cervello i dati della visione teorica generale. Tale condizione sarebbe
puramente illusoria e controrivoluzionaria. Quel compito è affidato invece, non
a schiere o gruppi di individui superiori scesi a beneficare l'umanità, ma ad
un organismo, ad un macchinismo differenziatosi nel seno della massa
utilizzando gli elementi individuali come cellule che compongono i tessuti, ed
elevandoli ad una funzione che è resa possibile solo da questo complesso di
relazioni; questo organismo, questo sistema, questo complesso di elementi ciascuno
con funzioni proprie, analogamente all'organismo animale cui concorrono sistemi
complicatissimi di tessuti, di reti, di vasi e così via, è l'organismo di
classe, il partito, che in certo modo determina la classe di fronte a se stessa
e la rende capace di svolgere la sua storia.
Tutto questo processo si riflette in
modo diversissimo nei vari individui che appartengono statisticamente alla
classe, sicché, per dirla in modo più concreto, non ci stupiremmo - in una data
congiuntura - di trovare l'operaio rivoluzionario e cosciente, quello ancora
vittima totale dell'influenza politica conservatrice e magari schierato nelle
file avversarie, quello seguace delle versioni opportunistiche del movimento
ecc.
E non avremmo alcuna conclusione da
trarre in modo automatico da una consultazione statistica - se fosse seriamente
possibile - che ci dicesse come si dividono numericamente tra queste svariate
posizioni i membri della classe operaia.
• • •
Ne consegue che, pur essendo un fatto
purtroppo bene assodato che il partito di classe, prima e dopo la conquista del
potere, è suscettibile di degenerazione dalla sua funzione di strumento
rivoluzionario, nella ricerca delle cause di questo gravissimo fenomeno di
patologia sociale e dei rimedi che possono essere atti a combatterlo noi non
prestiamo alcun credito alla risorsa di cercare, per le determinazioni e gli
indirizzi del partito, una garanzia od un controllo che si fondi
sostanzialmente su consultazioni di tipo elettivo svolte o nell'insieme dei
militanti del partito stesso o nella più larga cerchia degli operai
appartenenti a sindacati economici, ad organismi di fabbrica od anche a organi
di tipo politico rappresentativo di classe, quali i soviet o consigli operai.
Praticamente, la storia del movimento
dimostra che una simile risorsa non ha mai condotto a nulla di buono né
scongiurate le rovinose vittorie dell'opportunismo. In tutti i conflitti di
tendenza di cui furono teatro prima della guerra 1914 i partiti socialisti
tradizionali, contro i gruppi dei marxisti radicali di sinistra i revisionisti
della destra adoperarono sempre l'argomento ch'essi pretendevano di essere in
relazione con larghi strati della classe lavoratrice più che non lo fossero i
ristretti circoli di dirigenza del partito politico.
L'opportunismo faceva infatti
soprattutto leva sui capi parlamentari, i quali trasgredivano la direttiva
politica di partito e rivendicavano una autonomia da impiegare per la
collaborazione coi partiti borghesi allegando di essere stati designati da
tutti gli elettori proletari, molte volte più numerosi degli operai iscritti al
partito che ne eleggevano la direzione politica. Parallelamente, anche i capi
dei sindacati, sviluppando sul piano economico la stessa prassi di
collaborazione che i parlamentari seguivano sul piano politico, recalcitravano
alla disciplina del partito di classe sostenendo di rappresentare tutti i
lavoratori economicamente organizzati, assai più numerosi di quelli militanti
nel partito. Gli uni e gli altri, parlamentari possibilisti e bonzi sindacali,
nel correre all'alleanza col capitalismo, che culminò nella loro adesione alla
prima guerra imperialista, non esitarono a deridere, in nome del loro ostentato
operaismo o laburismo, i gruppi che svolgevano la sana politica di classe nei
quadri del partito e a tacciarli di intellettuali e perfino, talvolta, di non
proletari.
Che il ricorso ad una rappresentanza
diretta del lavoratore puro e semplice non conduca a soluzioni di sinistra e ad
una sana preservazione dell'indirizzo rivoluzionario lo dimostrò anche la
vicenda della scuola del sindacalismo soreliano, che in un certo momento parve
a taluni costituire il vero contraltare alla degenerazione dei partiti
socialdemocratici lanciati sulla via della rinuncia all'azione diretta e alla
violenza di classe. I gruppi marxisti che vennero poi a confluire nella
ricostituzione leninista della Terza Internazionale giustamente criticarono e
con-dannarono questo indirizzo apparentemente estremista, accusandone
l'abbandono di un criterio unitario di classe capace di superare la
ristrettezza delle singole categorie e dei contingenti conflitti limitati a
richieste economiche, che, pur nell'impiego di mezzi fisicamente violenti di
lotta, conducevano a rinnegare la posizione rivoluzionaria marxista per cui
ogni lotta di classe è lotta politica, e l'organo indispensabile ne è il
partito.
E la giustezza della polemica teorica fu
confermata dal fatto che anche il sindacalismo rivoluzionario naufragò nella
crisi di guerra e passò nelle file del socialpatriottismo dei vari paesi.
Quanto all'esperienza che sulla
questione di cui ci occupiamo può invece trarsi dall'azione di partito
all'indomani della vittoria rivoluzionaria, sono i fatti più salienti della
rivoluzione russa che apportano la maggior luce.
Noi contestiamo la posizione secondo cui
la rovinosa degenerazione della politica rivoluzionaria leninista fino
all'attuale indirizzo staliniano sia derivata all'inizio dall'eccessiva
preminenza del partito e del suo comitato centrale sulle altre associazioni
operaie di classe; contestiamo l'illusoria opinione che tutto il processo
degenerativo avrebbe potuto essere contenuto qualora si fosse ricorso, per la
designazione di gerarchie o per la decisione di importanti svolti della
politica del regime proletario, a consultazioni elettorali delle varie «basi».
Tale problema non può essere affrontato senza connetterlo alla funzione
economico-sociale dei vari organismi nel processo di distruzione dell'economia
tradizionale e di costruzione della nuova.
I sindacati costituiscono indubbiamente
ed hanno costituito per un lungo periodo un terreno fondamentale di lotta per
lo sviluppo delle energie rivoluzionarie del proletariato. Ma ciò è stato
possibile con successo solo quando il partito di classe ha seriamente lavorato
in mezzo ad essi per trasportare il punto di applicazione dello sforzo dai
piccoli obiettivi contingenti alla finalità generale di classe. Il sindacato di
categoria, anche evolventesi in sindacato d'industria, trova dei limiti nella
sua dinamica in quanto possono esistere differenze d'interessi tra le varie
professioni o raggruppamenti di lavoratori. E limiti anche maggiori trova alla
propria azione, man mano che l'atteggiamento della società e dello stato
capitalistico percorre le tre successive fasi del divieto dell'associazione
professionale e dello sciopero, della tolleranza delle associazioni sindacali
autonome, della conquista e dell'imprigionamento di esse nel sistema borghese.
Ma neppure al sindacato in regime di
affermata dittatura proletaria può pensarsi come ad un organismo che
rappresenti in modo primordiale e stabilizzato gli interessi dei lavoratori.
Possono anche in questa fase sociale sopravvivere conflitti di interessi tra
professioni della classe lavoratrice; ma il fatto fondamentale è che i
lavoratori non hanno ragione di servirsi del sindacato che fino a quando, in
determinati gruppi della produzione, il potere operaio sia costretto a
tollerare a titolo temporaneo la presenza dei datori di lavoro, mentre, man
mano che col procedere dello svolgimento socialista costoro scompaiono, il
sindacato perde il contenuto della propria azione. Il nostro concetto del
socialismo non è la sostituzione del padrone stato al padrone privato, e se in
fase di transizione il rapporto fosse questo, nel supremo interesse della politica
rivoluzionaria non si potrebbe ammettere per principio che i lavoratori
sindacati abbiano sempre ragione nel premere economicamente a carico dello
stato datore di lavoro.
Senza proseguire in questa importante
analisi, resta spiegato perché noi comunisti di sinistra non ammettiamo che la
massa sindacata, con una sua consultazione maggioritaria, possa essere condotta
ad influire sulla politica rivoluzionaria.
Passando ai consigli di fabbrica o di
azienda, ricordiamo che questa forma di organizzazione economica, affacciata in
primo tempo come molto più radicale di quella del sindacato, va perdendo sempre
più le sue pretese di dinamismo rivoluzionario, essendo ormai un'accezione
comune a tutte le correnti politiche, comprese quelle fasciste. La concezione che
vedeva nel consiglio di azienda un organo partecipante prima al controllo poi
alla gestione della produzione, e perfino capace di conquistare questa in
toto, azienda per azienda, si è svelata come prettamente collaborazionista,
e come un'altra via, non meno atta del vecchio sindacalismo a impedire
l'incanalamento delle masse nella direzione della grande lotta unitaria e
centrale per il potere. La polemica relativa ebbe un grande riflesso nei
giovani partiti comunisti quando i bolscevichi russi furono costretti a
prendere misure essenziali e talvolta drastiche per lottare contro la tendenza
degli operai a rendere autonoma la gestione tecnica ed economica della fabbrica
in cui lavoravano, cosa che non solo impediva l'avvio di un vero piano
socialista ma minacciò di danni gravissimi l'efficienza dell'apparato
produttivo su cui i controrivoluzionari tentavano di speculare. Infatti, più
ancora del sindacato, il consiglio di azienda può agire come esponente di
interessi molto ristretti e suscettibili di venire in contrasto con quelli
generali di classe.
Anche il consiglio d'azienda non è
d'altra parte un organismo basilare e definitivo del regime operaio. Quando in
dati settori della produzione e della circolazione si sarà attuata una vera
economia comunista, quando cioè si sarà andati molto oltre la semplice
espulsione del padrone dall'industria e l'amministrazione dell'azienda da parte
dello Stato, sarà proprio il tipo di economia per azienda che dovrà sparire.
Superato l'aspetto mercantilistico della produzione, l'impianto locale non sarà
che un nodo tecnico della grande rete generale guidata razionalmente da
soluzioni unitarie, l'azienda non avrà più bilanci di entrata e di uscita e
quindi non sarà più tale, poiché al tempo stesso il produttore non sarà più un salariato.
Il consiglio di azienda, come il sindacato, ha quindi dei limiti naturali di
funzionamento che gli impediscono di essere fino alla fine il vero terreno di
cultura della preparazione di classe che rende i proletari disposti e capaci a
lottare fino al raggiungimento integrale dei loro massimi scopi, e per tal
motivo non possono questi organismi economici essere un'istanza di appello per
controllare se il partito che detiene il potere dello Stato abbia o meno
deviato da quella fondamentale linea storica.
Rimane da trattare del nuovo organismo
rivelato dalla rivoluzione di ottobre: i consigli degli operai e dei contadini
e, in un primo tempo, anche dei soldati.
Si afferma che questa rete rappresenti
un nuovo tipo di costituzionalità proletaria contrapposto a quello tradizionale
dei poteri borghesi. La rete dei consigli, partendo dal più piccolo villaggio
per giungere a strati orizzontali successivi fino al vertice della dirigenza
dello stato, oltre ad avere per caratteristica l'esclusione di ogni componente
delle vecchie classi abbienti, formando quindi la manifestazione organizzata
della dittatura proletaria, ha l'altra caratteristica di far coincidere nei
suoi gangli tutti i poteri, rappresentativo, esecutivo ed anche, in teoria,
giudiziario. Si tratterebbe quindi di un perfetto ingranaggio di democrazia
infra-classista, la cui scoperta verrebbe ad offuscare i tradizionali
parlamenti del liberalismo borghese.
Ma da quando il socialismo è uscito
dalla fase utopistica, ogni marxista sa che non è l'invenzione di una formula
costituzionale che basta a distinguere i grandi tipi sociali e le grandi epoche
storiche. Le strutture costituzionali sono transitori riflessi dei rapporti
delle forze, e non derivano da principi universali cui possa farsi risalire il
modo immanente di organizzare lo stato.
L'importanza dei consigli - i quali alla
loro base sono effettivamente organi di classe e non, come si credette,
combinazioni di rappresentanze corporative o professionali, e quindi non sono affetti
dalle ristrettezze delle associazioni a sfondo prettamente economico - sta per
noi soprattutto nell'essere organismi di combattimento, e la loro
interpretazione non la cerchiamo in modelli fissi di struttura ma nella storia
del reale loro procedere.
Fu quindi stadio fondamentale della
rivoluzione quello in cui, dopo l'elezione dell'Assemblea costituente a tipo
democratico, i consigli si levarono contro di essa come il suo contrapposto
dialettico, e il potere bolscevico determinò la dispersione con la forza
dell'Assemblea parlamentare realizzando la geniale parola d'ordine storica:
«Tutto il potere ai soviet». Ma tutto questo non basta a farci accettare
l'opinione che, costituita una simile rappresentanza di classe, a parte il
fluttuare in tutti i sensi della sua composizione rappresentativa - di cui non
possiamo qui seguire le vicende - sia lecito affermare che in qualunque momento
e svolto della difficile lotta condotta dalla rivoluzione all'interno e
all'esterno si disponga del comodo e facile mezzo, atto a risolvere ogni
questione e perfino ad evitare la degenerazione controrivoluzionaria,
costituito da una consultazione od elezione maggioritaria dei consigli.
Per la stessa complessità del ciclo che anche
questo organismo descrive (ciclo che, anche nella ipotesi più ottimistica, deve
concludersi con la sua sparizione insieme al dissolvimento dello stato),
bisogna ammettere che l'ingranaggio dei soviet, come è suscettibile di esser
poderoso strumento rivoluzionario, così può cadere sotto influenze
controrivoluzionarie, ed in conclusione non crediamo a nessuna immunizzazione
costituzionale contro tale pericolo, che appunto sta soltanto in relazione con
lo svolgimento dei rapporti interni e mondiali delle forze sociali.
Potrebbe qui venirci l'obiezione che
noi, volendo stabilire la preminenza del partito politico rivoluzionario,
comprendente solo una minoranza della classe, su tutte le altre forme
organizzative, sembriamo pensare che il partito sia eterno, ossia debba
sopravvivere allo stesso sgonfiamento engelsiano dello stato.
Non vogliamo affrontare qui la
discussione sulla trasformazione del partito in un semplice organo futuro di
indagine e di studio sociale, che coincida coi grandi organismi di ricerca
scientifica della società nuova, analogamente al fatto che nella definizione
marxista lo stato, nello sparire, si trasforma in effetti in una grande
amministrazione tecnica sempre più razionale e sempre meno integrata da forme
coatte.
Il carattere distintivo che noi vediamo
nel partito deriva proprio dalla sua natura organica: non vi si accede per una
posizione «costituzionale» nel quadro dell'economia o della società; non si è
automaticamente militanti di partito in quanto si sia proletari o elettori o cittadini
o altro.
Si aderisce al partito, direbbero i
giuristi, per libera iniziativa individuale. Vi si aderisce diciamo noi
marxisti, sempre per un fatto di determinazione nascente nei rapporti
dell'ambiente sociale, ma per un fatto che si può collegare nel modo più
generale ai caratteri più universali del partito di classe, alla sua presenza
in tutte le parti del mondo abitato, alla sua composizione di elementi di tutte
le categorie e aziende in cui siano lavoratori e perfino in principio di non
lavoratori, alla continuità di un suo compito attraverso stadi successivi di
propaganda, di organizzazione, di combattimento, di conquista, di costruzione
di un nuovo assetto. È quindi, tra gli organi proletari, il partito politico
quello meno legato a quei limiti di struttura e di funzione nei cui interstizi
meglio possono farsi strada le influenze anticlassiste, i germi che determinano
la mallatìa dell'opportunismo. E poiché, come più volte abbiamo premesso, tale
pericolo esiste anche per il partito, la conclusione è che noi non ne cerchiamo
la difesa nella subordinazione del partito stesso ad altri organismi della
classe ch'esso rappresenta, subordinazione invocata molto spesso in malafede,
talvolta per l'ingenua suggestione esercitata dal fatto del maggior numero di
lavoratori che appartengono a tali organismi.
• • •
Il nostro modo d'interpretare la
questione si estende anche alla famosa esigenza della democrazia interna del
partito, secondo la quale gli errori delle direzioni centrali del partito (di
cui ammettiamo di aver avuto purtroppo numerosissimi e disastrosi esempi) si
evitano o si rimediano ricorrendo, al solito, alla conta numerica dei pareri
dei militanti di base.
Non imputiamo cioè le degenerazioni che
si sono verificate nel partito comunista all'aver lasciato scarsa voce in
capitolo alle assemblee e ai congressi dei militanti rispetto alle iniziative
del centro.
Una sopraffazione da parte del centro
sulla base in senso controrivoluzionario vi è stata in molti svolti storici; la
si è raggiunta perfino con l'impiego dei mezzi che offriva la macchina statale,
fino ai più feroci; ma tutto ciò, più che l'origine, è stata l'inevitabile
manifestazione del corrompersi del partito, del suo cedere alla forza delle
influenze controrivoluzionarie.
La posizione della sinistra comunista
italiana su questa che potremmo chiamare la «questione delle guarentigie
rivoluzionarie» è anzitutto che garanzie costituzionali o contrattuali non ve
ne possono essere, sebbene nella natura del partito, a differenza degli altri
organismi studiati, vi sia la caratteristica d'essere un organismo
contrattuale, usando il termine non nel senso dei legulei e nemmeno in quello
di J. J. Rousseau. Alla base del rapporto fra militante e partito vi è un
impegno; di tale impegno noi abbiamo una concezione che, per liberarci
dell'antipatico termine di contrattuale, possiamo definire semplicemente
dialettica. Il rapporto è duplice, costituisce un doppio flusso a sensi
inversi, dal centro alla base e dalla base al centro; rispondendo alla buona funzionalità
di questo rapporto dialettico l'azione indirizzata dal centro, vi risponderanno
le sane reazioni della base.
Il problema quindi della famosa
disciplina consiste nel porre ai militanti di base un sistema di limiti che sia
l'intelligente riflesso dei limiti posti all'azione dei capi. Abbiamo perciò
sempre sostenuto che questi non debbono avere la facoltà in importanti svolti
della congiuntura politica di scoprire, inventare e propinare pretesi nuovi
principi, nuove formule, nuove norme per l'azione del partito. È nella storia
di questi colpi a sorpresa che si compendia la storia vergognosa dei tradimenti
dell'opportunismo. Quando questa crisi scoppia, appunto perché il partito non è
un organismo immediato e automatico, avvengono le lotte interne, le divisioni
in tendenze, le fratture, che sono in tal caso un processo utile come la febbre
che libera l'organismo dalla mallatìa, ma che tuttavia «costituzionalmente» non
possiamo ammettere, incoraggiare o tollerare.
Per evitare quindi che il partito cada
nelle crisi di opportunismo o debba necessariamente reagirvi col frazionismo
non esistono regolamenti o ricette. Vi è però l'esperienza della lotta
proletaria di tanti decenni che ci permette di individuare talune condizioni,
la cui ricerca, la cui difesa, la cui realizzazione devono essere instancabile
compito del nostro movimento. Ne indicheremo a conclusione le principali:
1) Il partito deve difendere ed affermare la massima chiarezza e continuità
nella dottrina comunista quale si è venuta svolgendo nelle sue successive
applicazioni agli sviluppi della storia, e non deve consentire proclamazioni di
principio in contrasto anche parziale coi suoi cardini teoretici.
2) Il partito deve in ogni situazione storica proclamare apertamente
l'integrale contenuto del suo programma quanto alle attuazioni economiche,
sociali e politiche, e soprattutto in ordine alla questione del potere, della
sua conquista con la forza armata, del suo esercizio con la dittatura.
Le dittature che degenerano nel
privilegio di una ristretta cerchia di burocrati e di pretoriani sono state
sempre precedute da proclamazioni ideologiche ipocritamente mascherate sotto
formule di natura popolaresca a sfondo ora democratico ora nazionale, e dalla
pretesa di avere dietro di sé la totalità delle masse popolari, mentre il
partito rivoluzionario non esita a dichiarare l'intenzione di aggredire lo
stato e le sue istituzioni e di tenere la classe vinta sotto il peso dispotico
della dittatura anche quando ammette che solo una minoranza avanzata della classe
oppressa è giunta al punto di comprendere queste esigenze di lotta.
«I comunisti - dice il «Manifesto» - disdegnano di nascondere i
loro scopi». Coloro che vantano di raggiungerli tenendoli abilmente coperti
sono soltanto i rinnegatori del comunismo.
3) Il partito deve attuare uno stretto rigore di organizzazione nel senso che
non accetta di ingrandirsi attraverso compromessi con gruppi o gruppetti o
peggio ancora di fare mercati fra la conquista di adesioni alla base e
concessioni a pretesi capi e dirigenti.
4) Il partito deve
lottare per una chiara comprensione storica del senso antagonista della lotta.
I comunisti rivendicano l'iniziativa dell'assalto a tutto un mondo di
ordinamenti e di tradizioni, sanno di costituire essi un pericolo per tutti i
privilegiati, e chiamano le masse alla lotta per l'offensiva e non per la
difensiva contro pretesi pericoli di perdere millantati vantaggi e progressi.
conquistati nel mondo capitalistico. I comunisti non danno in affitto e
prestito il loro partito per correre ai ripari nella difesa di cause non
loro e di obbiettivi non proletari come la libertà, la patria, la democrazia ed
altre simili menzogne.
«I proletari sanno di non aver da
perdere nella lotta altro che le loro catene».
5) I comunisti rinunciano a tutta quella rosa di espedienti tattici che
furono invocati con la pretesa di accelerare il cristallizzarsi dell'adesione
di larghi strati delle masse intorno al programma rivoluzionario. Questi espedienti
sono il compromesso politico, l'alleanza con altri partiti, il fronte unico, le
varie formule circa lo Stato usate come surrogato della dittatura proletaria -
governo operaio e contadino, governo popolare, democrazia progressiva.
I comunisti ravvisano storicamente una
delle principali condizioni del dissolversi del movimento proletario e del
regime comunista sovietico proprio nell'impiego di questi mezzi tattici, e
considerano coloro che deplorano la lue opportunista del movimento staliniano e
nello stesso tempo propugnano quell'armamentario tattico come nemici più
pericolosi degli stalinisti medesimi.
Il lavoro pubblicato in cinque puntate col
titolo «Forza violenza dittatura nella lotta di classe» aveva per oggetto la
questione dell'impiego della forza nei rapporti sociali e dei caratteri della
dittatura rivoluzionaria rettamente intesi secondo il metodo marxista. Non
toccava di proposito le questioni di organizzazione di classe e di partito, ma
vi fu condotto direttamente nella parte conclusiva dalla discussione sulle
cause di degenerazione della dittatura, attribuite da molti in modo
preponderante ad errori di organizzazione interna e alla violazione di una
prassi democratica ed elettiva nel seno del partito e degli altri organi di
classe.
Nella confutazione di questa tesi
abbiamo tuttavia commessa una omissione non ricordando una importante polemica
svoltasi nell'Internazionale Comunista nel 1925-
L'argomento fu sviscerato ampiamente ma
il punto centrale era questo. Se la funzione organica del partito, non
sostituibile in essa da alcun altro organo, è lo svolgimento dalle singole
lotte economiche di categoria e locali alla unità della lotta generale della
classe proletaria sul piano sociale e politico, nessuna eco di tale compito può
seriamente aversi in una riunione in cui figurano soltanto lavoratori di una
stessa categoria professionale e di una stessa azienda di produzione. Tale
ambiente sentirà solo esigenze circoscritte e corporative, l'espressione della
direttiva unitaria di partito vi scenderà solo dall'alto e come cosa estranea;
il funzionario di partito non si incontrerà mai su un piano di parità coi
singoli iscritti della base, in un certo senso egli non farà più parte del
partito non appartenendo a nessuna azienda economica.
Nel gruppo territoriale invece sono
posti in partenza sul medesimo piano i lavoratori di ogni mestiere e dipendenti
da svariatissimi padroni, e con essi tutti gli altri militanti di categorie
sociali non strettamente proletarie che il partito dichiaratamente ammette come
gregari, e deve in ogni caso ricevere come tali e se occorre tenerli in
maggiori quarantene, prima di chiamarli, ove ne sia il caso, a cariche di
organizzazione.
Mostrammo allora che la concezione delle
cellule, malgrado la pretesa di attuare la stretta adesione dell'organismo di
partito alle più larghe masse, conteneva gli stessi difetti opportunistici e
demagogici dell'operaismo e laburismo di destra e contrapponeva i quadri alla
base, in una vera caricatura del concetto di Lenin sui rivoluzionari
professionali.
Le vedute della sinistra
sull'organizzazione di partito, se sostituiscono allo stupido criterio
maggioritario scimmiottato dalla democrazia borghese un ben più alto criterio
dialettico che fa dipendere tutto dal solido legame di militanti e dirigenti
con la impegnativa severa continuità di teoria di programma e di tattica e se
depongono ogni velleità di corteggiamento demagogico a troppo larghi e quindi
più facilmente manovrabili strati della classe lavoratrice, in realtà sono le
sole che meglio si conciliano con una profilassi contro la degenerazione
burocratica dei quadri del partito e la sopraffazione della base da parte di
essi, che si risolve sempre con un ritorno di disastrose influenze della classe
nemica.
Partito comunista internazionale
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